Al Teatro Strehler di Milano va in scena un “Romeo e Giulietta” molto attualizzato, firmato dal regista napoletano, che porta intanto sugli schermi italiani la sua affettuosa e intelligente biografia per immagini e parole di Massimo Troisi, “Laggiù qualcuno mi ama”. Dove parlano lo stesso protagonista e le sequenze dei suoi film, Paolo Sorrentino che si dichiara debitore di ispirazione, il saggista Goffredo Fofi e la sceneggiatrice, nonchè compagna di vita dei primi anni, Anna Pavignano
Mario Martone uno e due. Ha debuttato la scorsa settimana al Teatro Strehler di Milano con la sua vitale e modernizzatissima versione del Romeo e Giulietta shakespeariano, forte di una compagnia di giovani di contagioso entusiasmo, sorretti, nel vero senso della parola, da uno splendido, gigantesco “albero della vita” progettato e costruito da Margherita Palli, unica, onnipresente, multifunzionale scenografia dello spettacolo. Al cinema invece Martone offre Laggù qualcuno mi ama, biografia intelligente e affettuosa di Massimo Troisi, reduce con plausi dalla Berlinale.
Un documentario a tutti gli effetti, ricco di materiale inedito: molti interventi dello stesso Troisi e gli spezzoni dei film che ha diretto e interpretato, le interviste ai compagni di set Lello Arena e Roberto Benigni, ad attori (Ficarra e Picone) e registi che dichiarano debiti d’ispirazione nei suoi confronti come Paolo Sorrentino, alla sua storica sceneggiatrice (e compagna di vita) Anna Pavignano, al critico Goffredo Fofi, bravo nello spiegare le ragioni di un successo e la collocazione nella vicenda del cinema italiano. Il tutto montato con ritmo efficace e grande equilibrio da Jacopo Quadri. Ma c’è anche molto di più: quella di Martone è una dichiarazione di affetto, il ricordo di un’amicizia, la conferma di una sincera ammirazione. Nel segno di una comune napoletanità (non manca perfino un brevissimo duetto con Diego Armando Maradona), al tempo stesso qui ribadita e messa in discussione negli aspetti più prevedibili.
Emerge infatti da questo ritratto la modernità di Troisi, primo comico, insieme a Benigni che con lui ha diretto e interpretato Non ci resta che piangere, ad aver costruito un racconto della realtà, nei risvolti divertenti ma non solo, vista come universo spaccato, poco ricomponibile, spesso anche poco comprensibile. Quel grande buco esistenziale che negli anni si è sempre più allargato nelle nostre vite, tra lavoro e sentimenti, politica e cinema. E’ questo uno dei lati geniali e anticipatori, ma non certo l’unico, di un cinema che, è vero, ha portato, soprattutto nei primi film, il ritmo spezzettato, sincopato della tv dove l’autore aveva già avuto un notevole successo. Ma l’ha fatto non per riprodurre all’infinito l’affetto sketch di tanti colleghi, soprattutto comici; piuttosto per mostrare come questa difficoltà di costruire un discorso continuo, compiuto, che riguardasse il piano personale e collettivo, quindi anche quello filmico e culturale, si delineasse sempre più come il problema dell’umana contemporaneità. E della sua descrizione, scritta, parlata, per immagini.
Dice Martone che tra lui e Troisi “Era nata un’amicizia fondata su una grande stima reciproca: adoravo il suo cinema, vagheggiavamo di lavorare insieme”. E così, ripercorrendo la carriera e la vita, dall’infanzia a San Giorgio a Cremano agli ultimi anni difficili della malattia che l’ha portato alla morte a soli 41 anni, emergono l’attore e il regista, e ovviamente l’uomo col suo carattere schivo, estremamente sensibile. Ne testimonia più di tutti Anna Pavignano, che l’ha amato e ne ha condiviso il percorso di scrittura, lo conferma chi ha lavorato con lui. Da Ricomincio da tre a Scusate il ritardo, da Non ci resta che piangere a Le vie del signore sono finite, da Pensavo fosse amore… invece era un calesse allo struggente Il Postino, peraltro accreditato a Michael Radford (più il televisivo Morto Troisi, viva Troisi, 1982) sono di fatto solo sei i film girati da Troisi, sei come quelli del grande Tatì. Eppure entrambi, con una produzione così scarna, hanno segnato la storia non solo della comicità (e questo è evidente) ma anche del cinema tutto.
Martone paragona in verità Troisi a Truffaut, ritrova nella fragilità di Antoine Doinel quella dei personaggi interpretati da Massimo, e mostra le prove dell’affinità che sussisteva tra i due registi, che emerge dalle loro opere. Ma se Tati non parlava mai nei suoi film, Troisi si faceva fatica a capirlo, con quel linguaggio sempre in bilico tra la lingua, il dialetto, i borborigmi a volte anche tronchi che sembravano un po’ uno sberleffo alla “crisi del linguaggio”. E metà del pubblico del Nord Italia, che lo ha molto amato, si faceva tradurre le battute più “difficili” dall’amico della sedia accanto, venuto dal sud, alla faccia dei quasi trent’anni di immigrazione alle spalle, con relativo, teorico, molto teorico, incontro di idiomi.
Il film cade in occasione dei 70 anni dalla nascita di Troisi, ma forse non è una caso che Martone sia arrivato a farlo poco dopo il suo primo film che l’ha avvicinato al mondo della comicità, l’intelligente e gradevolissimo Qui rido io, che ha riportato in luce un’altra icona storica dell’umorismo napoletano, Edoardo Scarpetta, ammirato con le fattezze di Toni Servillo. E Martone fa bene a mostrare i volti dei giovani spettatori che assistono a una proiezione recente, all’aperto, di un film di Troisi, il quale ha un grande seguito anche oggi in quel pubblico, qui colto nella sua sorridente partecipazione emotiva.
“Io vado incontro alla vita. Come tutti quanti”. dice l’attore/regista/sceneggiatore sullo schermo, in fondo con una certa serenità. E nonostante la vita con lui sia stata dura, minato da un problema di salute così grave da portarlo assai giovane alla morte, non ha mai smesso di raccontare, rappresentare il suo opposto, l’amore. Spesso abitato dall’assenza, dalla solitudine, anche da una certa malinconia, emozioni che si alternano a quella che Troisi stesso dichiara, forse partendo dal suo “archivio sentimentale”, a una precisa domanda nel film: “l’amore è prima di tutto esasperazione”. I finali dei suoi film, con il ricorso al fermo-immagine, forse in qualche modo difendono lo spettatore dal fluire della vita, in un’immobilità distante dal frastuono, dalle fragilità, anche dalle tragedie dalla realtà. Che comunque Troisi, nei suoi film, non ha mai trascurato di raccontare. Come il terremoto del 1980. Attore, comico con una sua maschera, forse perfino un po’ clown moderno, a volte. Ma sempre dentro il mondo che ha attraversato. Come Tati.
Laggiù qualcuno mi ama, film documentario di Mario Martone su e con Massimo Troisi, Roberto Benigni, Paolo Sorrentino, Anna Pavignano, Lello Arena, Goffredo Fofi, Ficarra e Picone