Disumani, senza fine: “Attaccare la terra e il sole” di Mathieu Belezi

In Letteratura

È la metà dell’Ottocento, ma accade centinaia, migliaia di volte sempre nella stessa maniera: una guerra coloniale, chi si deporta e chi viene deportato, la fame di terra e la fame e basta, chi viene schiacciato oggi e chi schiaccerà domani. Un libro incandescente, che parla della follia e dello stravolgimento che, ogni volta, la guerra porta con sè.

Racconto tragico della guerra coloniale della Francia in Algeria intorno alla metà dell’Ottocento.
È come se Mathieu Belezi nel suo struggente Attaccare la terra e il sole facesse salire il Coro della tragedia greca sul proscenio, in primo piano, a cantare disperato la sua vicenda, facendoci dimenticare la Storia dei vincitori, del potere: restano sullo sfondo i sublimi protagonisti, lontani gli eroi e i principi, a parlare sono gli ultimi, i dimenticati, gli oppressi.

Sono due le voci narranti: Séraphine, che col marito e tre figli parte da Marsiglia per una colonia agricola in Algeria, e un soldato delle truppe d’occupazione, totalmente devoto alla grande Francia e alla feroce violenza, al patriottismo sanguinario del suo capitano.
I capitoli si sviluppano seguendo alternativamente le loro voci, Dura fatica quelli di Séraphine, Bagno di sangue quelli del saldato.



Per Séraphine é una guerra che non doveva essere tale. Lei, e gli altri contadini, avevano lasciato la loro povera terra perché non gli dava più da vivere, avevano lasciato tutto per andare nella Terra Promessa, giù in Algeria, sette ettari “regalati dalla Francia”, lavorare i campi e costruirsi una nuova vita. Invece. Le brutture del viaggio, le attese angosciose prima dell’imbarco, l’ammassamento dei corpi, la fame, lo sporco, la dissenteria e il vomito; brutto inizio per un radioso avvenire:

‘ ed è in un lazzaretto che ci hanno parcheggiato, noialtri ingenui migranti ed eravamo almeno in cinquecento’.

La descrizione della traversata è così straziante e viva che ricorda le pagine di Roberto Saviano quando descrive l’inferno dei migranti ammucchiati nella stiva della nave.
Finalmente lo sbarco, la marcia attraverso un deserto freddissimo, per arrivare alla colonia, al nulla. Pietre e sabbia. Comincia a piovere, a diluviare e non c’è riparo.
Dopo giorni di maltemop, Séraphine esce dalla tenda:



‘ a vedere un po’ a cosa poteva assomigliare quella colonia agricola, con tutte e due le mani mi sono sfregata il viso stropicciato, e ho guardato spalancando bene i miei occhi di francese, mi sono girata tre volte su me stessa cercando qualcosa che potesse attirare il mio sguardo, confortarmi, cacciare il peso di quell’angoscia che quasi mi mozzava il fiato, ma non ho trovato niente e se non ho trovato niente è perché non c’era niente da vedere, niente vi dico, assolutamente niente
Cespugli, rocce e nuvole così basse da far venire voglia di sparire sottoterra
E poi davanti a me quella disposizione sinistra di tende militari che in quel deserto centravano come cavoli a merenda ‘.


I soldati, con le baionette puntate li difendono dagli assassini musulmani, sono dappertutto pronti a massacrarli.
Sèraphine non capisce, loro sono solo dei poveri contadini che sono venuti a lavorare i sette ettari che gli ‘ha donato la Francia’, non vogliono far del male, non sono in guerra; non la sfiora neanche l’idea che i selvaggi musulmani non la vedono così, che vogliono difendere la loro terra dai coloni invasori, che sono loro a massacrarli per portargli via tutto quello che hanno.
No, Sèraphine e i suoi compagni coloni sono venuti in pace.
Ma quella pace non dura niente.

“Santa, santissima madre di Dio”, l’invocazione di Séraphine che esce dal suo petto affannato, per lamentarsi perché proprio non ce la fa più, o perché è tutto troppo duro, difficile, assurdo, la sporcizia,il freddo, la fame, la paura. Qualche volta – davvero pochissime volte – Séraphine riesce a lasciarsi andare a qualche momento di felicità, come quando vanga col marito per la prima volta quel terreno che nessuno ha mai vangato, sono loro i primi a zapparlo, a farne nascere qualcosa e dopo un mese di cure finalmente qualche ortaggio riesce a spuntare; una volta più per disperazione che per desiderio, si getta sul corpo sfiancato del marito e – proprio non si sa come – cominciano ad abbracciarsi, a sprofondare l’uno nell’altro e si amano.
“Santa, santissima Madre di Dio”.
Anche la natura intorno è estranea, stellate immense, fantastiche, gli ululati dei lupi, il sibilo delle vipere, il fruscio in agguato dietro ogni roccia, ogni cespuglio.

Una donna, (lei non aveva paura di niente e di nessuno, ne aveva viste di cotte e di crude), va un giorno da sola al ruscello a lavare i panni e viene sventrata: si portano via la sua testa.
Adesso anche i contadini-coloni vogliono vendicarsi, sono entrati in guerra. Adesso ci si muove solo sotto scorta, gli agguato sono continui. Soldati e coloni vengono trucidati e infilzano con le baionette quanti più possono.
Quando sembra che ci sia una qualche misera tranquillità, arriva il colera.
Si porta via più della metà dei coloni e i due figli maschi di Sèraphine.

Bagno di sangue sono intitolati i capitoli del racconto del soldato.
“Non siamo angeli“ , alternato a “Non siete angelì“ che urla il capitano alla truppa per incitarli al massacro, sono il leitmotiv che percorre il racconto. Ogni villaggio è assalito, uomini, vecchi e bambini trucidati, le donne stuprate e costrette a servire. Quando la truppa se ne va, porta via tutto e le brucia insieme al villaggio.
‘Non siamo angeli’
Non ci sono storie nelle loro vite, solo una fanatica devozione al capitano e alla Francia, che esige sacrifici di sangue.
Le vite di Séraphine e del soldato si incrociano solo una volta, in cui il villaggio sta per essere assalito dopo giorni di assedio e arrivano le truppe comandate dal trucido capitano e compiono una mattanza. L’ennesima.
I coloni sono salvi e l’esercito cerca un’altra strage.

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