Etero o gay (oggi in piazza a Milano anche per le unioni civili), l’istituzione mantiene, contro tutto, la sua sacralità cerimoniale. Riusciremo prima o poi a smitizzarla?
Giulio. Non avevano soldi, ma una forza laicamente divina li spinse verso i tremila euro di abito da indossare in comune. Bianco virginale, nessuna verginità, ma strascico, velo e fiore per chiudere il tutto. Le scarpe, blu, spuntavano da sotto il vestito.
Non erano cristiani, ma era irrinunciabile il clima da chiesa, con un Bach dal vivo, fiori e banchi stracolmi di amici sospiranti per il sì. E come deludere le attese di chi smania per fare da testimone, o per indossare il vestito rosa da damigella e poi saltare addosso al bouquet? Amici con cui hai brindato alla fine della libertà sessuale come se la prospettiva fosse una reclusione nel talamo nuziale, da inaugurare in luna di miele, forse non per la prima volta. I soldi raccolti con una lista nozze che assomiglia a una colletta, per affollare i troppo animati villaggi vacanze caraibici. E allora giù pacche sulle spalle tra maschi e risolini cinguettanti tra femmine, per celebrare i primi flussi di una sessualità di coppia di solito, a quel punto, già in pieno esercizio – se non già in fase di defaticamento. Infine sono partiti, su una macchina che, ironia del destino, pareva quasi un carro funebre sbiancato.
Giulio e Mattia. Che sia osannato o vilipeso, ingresso nell’adultità o fine dei giochi, il matrimonio ci circonda tentacolarmente con la sua aura solenne. Fusione cellulare verso un denominatore comune: la famiglia. Come un fulcro sociale che preserva dal disordine del libertinaggio, della paternità anonima, della poligamia bestiale: il matrimonio non è soltanto un contratto borghese ma una vicenda senza data di scadenza. Rubando qualcosa a Thomas Mann – anche se forse non un modello di riuscita familiare, visti i suoi disastri biografici –, sembra ci sia da almeno cent’anni una crisi nel concetto «epico» di matrimonio e felicità domestica: dall’autorità paterna si slegano mogli, figli e servitù. Oggi, poi, ribollono – riconosciute o no – nuove fisionomie famigliari più che adeguate ad abitare il nostro edificio post-capitalistico.
Ma sembra proprio che queste nuove famiglie vogliano salir per l’altrui scale, quelle del matrimonio etero-borghese. Il problema non è sostanziale, non riguarda il matrimonio in sé: come dice Mann, il matrimonio «deve necessariamente essere e sarà, non può perire, ma solo trapassare in nuove forme di vita». Ne abbiamo bisogno, garantisce l’ordine e suggella la necessità eternamente umana di istituzionalizzare la fedeltà reciproca con un contratto. Però un problema formale c’è, eccome. E sta appunto nella volontà, LGBT e non solo, di salirle, queste scale, quasi fosse meno faticoso che farle scendere ad altri.
Invece di supplicare per un riconoscimento dall’alto, perché non far crollare in piazza il tempio incombente della sacralità matrimoniale? Non più davanti a Dio, ma finalmente tra gli uomini, che sia qualcosa di completamente nuovo, per cui mancano persino le categorie ontologiche. Qualcosa che permetta a due uomini o due donne di andare all’Ikea senza essere visti come bizzarri alternativi, ma senza essere nemmeno banalmente “riconosciuti”: solo coppie che semplicemente sono.
E così niente più opposizione accademia-avanguardia, fronde rivoluzionarie contro fronte conservatore. Niente più Citati contro Galli della Loggia, sempre entrambi – per carità – sulle integranti colonne di via Solferino. Dato che in fondo questa integrazione non è che il plauso del superiore sull’inferiore, magari concesso storcendo un po’ la bocca con una punta di disprezzo. È l’approvazione che il bianco concede al negro, da integrare – in fin dei conti, sbiancare – invece di permettergli di colorare il mondo in un arcobaleno multiculturale. Insomma diverso non come opposizione, ma – etimologicamente – come multidirezionalità.
Eppure la solennità cerimoniale miete le vittime più inaspettate, e anche i più convinti fanno fatica a sganciarsi da questo contesto, dall’ingombrante dover-essere che fa concedere all’Irlanda i matrimoni gay senza nemmeno prendere in considerazione una legge sull’aborto. E allora ci chiediamo: quanto è lontana tale desiderata smitizzazione?
Mattia. All’entrata in chiesa la mia amica era bella come Julia Roberts. E pensare che all’inizio, dieci anni fa, poteva sembrare una storia tra ventenni come le altre: inevitabilmente destinata alla dissoluzione, di quelle per cui la sera si spettegola con tono sensazionalista: “sai chi si è lasciato?”. Invece è finita così. Anzi è cominciata così: con una marcia nuziale estiva in un paesino abruzzese arroccato, tanto bello che non te lo aspetti. Ma poco prima della cerimonia c’è tensione, e c’è davvero per tutti. Quei cinque, dieci minuti in cui un pensiero attraversa la mente di ognuno: la sposa potrebbe non presentarsi. Come i passeggeri al decollo che scacciano il cupo presentimento di un disastro aereo. Ma non questa volta, e al suo arrivo il nodo si è sciolto in cinque o sei lacrime di routine. È il segno che il tempio sta ancora lì in alto, un segno che è in me, in lei, in tutti noi presenti coi fazzoletti in mano ad asciugarci le lacrime.
Immagine di copertina: SLWedding di Pictr73