L’arte? È un gioco molto serio. Parola di Ravel

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L'enfant et les sortileges

“L’enfant et les sortilèges” e “L’heure espagnole” del grande compositore francese, viste alla Scala nell’edizione del Glyndebourne Festival, sono ben più che due fiabe per adulti. Fantasticherie da balletto, caleidoscopico gioco musicale ma, comunque, grandi partiture moderne ben servite in questo caso dalla regia di Laurent Pelly e dalla direzione di Marc Minkowski

Nel mondo incantato di Ravel, l’arte può essere gioco: un gioco serissimo. Come se ci fosse «un significato più profondo nelle fiabe che nella verità qual è insegnata dalla vita». Lo scrive Schiller in pieno Wallenstein, che non è un gioco nemmeno per scherzo. E una fiaba è anche L’enfant et les sortilèges, seconda e ultima opera di Ravel dopo L’heure espagnole, insieme per il caleidoscopico debutto di ieri sera al Teatro alla Scala – fino al 6 giugno.

Più che una fiaba per adulti, L’enfant è un’intensa rievocazione dell’infanzia composta all’inizio degli anni venti, e tratteggiata con struggente precisione da Colette, autrice del libretto. Parlando di fiabe, è bene ricordare che la vera sirenetta si suicida squagliandosi in mare come schiuma e, quel che è peggio, il suo amato principe sposa un’altra. Ma è proprio perché non edulcorano la vita che le fiabe schiariscono le idee a bimbi giovani e maturi. Così Bruno Bettelheim ha psicanalizzato tutti gli infanti, già traumatizzati ben prima che la Disney sparasse alla mamma di Bambi, e ha concluso che va bene così. Anzi forse grazie alle fiabe l’inconscio può cominciare subito ad accettare che la natura umana sia peggio di quel che sembra.

Quindi non ci deve stupire l’immotivata violenza inziale dell’enfant, ragazzo selvaggio alle prese con i compiti, amorale più che immorale, che in un intrico di dissonanze straccia libri e tappezzerie frantumando in terra un servizio da tè: “il crimine del bambino”, direbbe Melanie Klein, che conosceva bene il testo. Interverranno le stesse suppellettili per sgridarlo sempre più minacciosamente, addirittura col supporto di gatto, raganelle e del giardino intero. Solo l’invocazione della mamma risveglia il pubblico da questo dolce incubo, e nel finale gli aggressori, ormai commossi, accompagnano a casa la piccola peste avvolgendolo in un dolce sol maggiore.

Fantasticherie più da balletto, come del resto tanta musica che Ravel scrisse dopo la guerra – compresi Boléro e la Valse. Tanto che ne L’enfant «la scena più lunga dura circa due minuti e mezzo» commenta il regista Laurent Pelly, perché in quest’estetica del gioco non c’è tempo per la riflessione, né per l’introspezione. Il gioco incalza di danza in danza fino a somigliare a un’inquietante ridda: dal minuetto di poltrona e bergère, al foxtrot della teiera inglese, al valzer delle libellule. L’impressionismo è quindi solo uno sfondo in partitura per intricati esperimenti musicali. Così i gatti possono letteralmente miagolare in una scena non più descrittiva ma concreta, in cui all’onomatopea si sostituisce il verso. Ci fu persino una discussione con Colette per lo spelling del «moaou» dei gatti, discendente di quei versacci delle rane di Aristofane: brekekekex koax koax.

Lo spettacolo di Pelly segue in pieno il realismo che intendeva Ravel. C’è tutto: dal camino col fuoco, ai pastorelli da parati. E la meccanica dello spettacolo è stupefacente – salvo una scena che si è inceppata e il breve smarrimento che è seguito: i brividi del live–, stupefacente proprio per quanto riesca a seguire ogni passaggio senza mai cedere ad allusioni né illusioni visive: i sortilegi vanno mostrati, quando se ne è capaci come Pelly. Perché Ravel prendeva tutto tremendamente sul serio: ha solo simulato una parodia allo scopo di ottenere il suo poema della metamorfosi, potente meccanismo a orologeria.

E a proposito di orologi è una delizia anche L’heure espagnole introduttiva, farsa erotica scritta dall’autore una decina di anni prima. Quasi fiaba anche questa, ma boccaccesca e sporcacciona, in cui l’almodovariana Concepcion è costretta a nascondere al marito orologiaio i suoi due amanti, per fuggire infine, come avremmo fatto tutti, con un quarto: il muscoloso mulattiere traboccante di virilità, omaggiato con una Habanera, di cui Bizet non ha l’esclusiva. Anche qui la soluzione scenica a due livelli di Pelly, pensata più di dieci anni fa per l’Opéra di Parigi con Ozawa insieme al Gianni Schicchi, è perfetta per superare la ripetitività di questo atto unico. Così il mulattiere porta le pendole su e giù dalle scale senza che la gag annoi mai. Azzeccata poi l’atmosfera della bottega, a metà tra uno sceneggiato latinoamericano e un programma di Real Time sugli accumulatori seriali.

La direzione di Marc Minkowski accompagna con smalto gli ingranaggi di una partitura a incastri, che ha la versatilità della rivista, dello spettacolo di varietà. Eccellenti i cantanti, dalla sensuale Concepcion di Stéphanie D’Oustrac, senza mutande fin da subito, alla petulante esuberanza di Marianne Crebassa, enfant non prodige ma pur sempre under trenta, già applaudita alla Scala come Cecilio nel Lucio Silla della scorsa stagione. Incanta nel finale il coro di Bruno Casoni in versione vegana à La Fontaine, per la sospensione polifonica quasi attonita di fronte all’ombra spielberghiana della madre in attesa alla finestra.

L’enfant et les sortilège e L’heure espagnole di Maurice Ravel, Coro e orchestra del Teatro alla Scala, dirige Marc Minkowski, regia di Laurent Pelly, Produzione Glyndebourne Festival (repliche 20, 22, 24,26, 31 maggio; 3, 6 giugno)

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