Sono ore assurde, che scorrono solo nel perimetro della casa, quelle de “La famiglia che perse tempo”: primo romanzo di Salabelle, ripubblicato da Quodlibet
«Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?», si domandava Marion ne Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Di un tempo che incarognisce, smuccia e incede ora troppo lemme ora troppo veloce racconta Maurizio Salabelle nella sua ultima opera prima. Ultima sì, perché nonostante fosse di casa alla Bollati Boringhieri sin dagli anni ottanta (tempi in cui per le stanze della casa editrice ancora si aggirava Giulio Bollati di Saint Pierre), e La famiglia che perse tempo sia il suo primo romanzo, non era ancora stato dato alle stampe, scalzato nella via verso i torchi editoriali da Un assitente inaffidabile, Il mio unico amico, Il maestro Atomi…
La famiglia che perse tempo (Quodlibet, 2015) potrebbe essere la storia di una famiglia, una cronaca fantasmagorica di una malattia. Ma risulterà chiaro a tutti che è qualcosa di meno; o qualcosa di più. Il racconto inizia allorché un morbo insolito colpisce la casa e termina con un’ilare catastrofe, i prodromi della quale già si trovano nella stanza del babbo, dove scorre un tempo folle, e dove orologi elettrici febbricitanti disertano la convenzionale scansione del tempo. Non che le ore non ci siano, si badi bene, ma sono ore assurde, «poco probabili», ore che fanno sorridere e che valgono nel perimetro della casa soltanto. In questo tempo, che somiglia tanto a uno spazio, si snodano consuetudini strambe, drôleries di una famiglia in cui più che conversazioni c’è un’incostante danza di monologhi, che assumono ora la forma di conferenze ora quella di udienze. Il babbo è il primo a precipitare nel malestrom, «un tempo che non è il nostro», e quindi appare lui profondo come un vulcano, ma viene il dubbio che sia piatto e privo di rilievi, e i suoi esperimenti con i liquidi pregni di significati profondi, ma viene il dubbio che siano totalmente privi di significato, «come l’interno delle noci, che gli antichi vedevano come l’equivalente in natura del cervello degli uomini ma che in realtà non vuole dire niente». La città miasmatica aleggia fuori dallo spazio, tra la campagna toscana e Gotham City; un luogo bizzarro fatto di zone nere non registrate sulle mappe e dove si paga in dollari.
«Quest’insieme di giorni, mesi ed anni, trattenuto dentro di sé per un periodo lunghissimo, a un certo punto ha cominciato a fuoriuscire come se si fosse ridotto in particelle atomiche. Nostro padre sta perdendo i suoi vecchi anni, signori, (quelli già consumati ma che si portava ancora addosso come un bagaglio), e questi anni stanno finendo irrimediabilmente nell’atmosfera che lo circonda. (…) Attorno a lui il tempo è più veloce del normale perché si disperde nell’atmosfera e viene assorbito dagli orologi». Un minuto dura 35 secondi e per ovviare a quei 25 secondi di distanza dal mondo si creano cariche ad hoc come quella di «governatore degli orologi», prima di una serie di mansioni fuori dall’ordinario. L’inscandibilità del tempo porta a dividere la vita in periodi, e si susseguono quello del tempo veloce, il tempo dei libretti, il periodo del caro Giuseppe, il periodo brutto, via via verso la catastrofe; ci si appropinqua però all’apocalisse con il sorriso, senza disperazione. E l’apocalisse, secondo l’angelo del testo biblico, è esattamente la dissoluzione del tempo; un tempo che è un’idea e che di fronte a una felicità totale non ha più motivo di esistere. La narrativa di Salabelle nonostante il narratore non sia più un ragazzino di dieci anni, come ne Il mio unico amico o ne Il maestro Atomi, non riesce, non vuole, non può perdere l’incanto, quella facoltà genuina dello spirito così rara nella letteratura italiana.
Ermanno Cavazzoni, nel 2002 coglieva una peculiarità del Salabelle recensore che può essere molto utile per restituire un’idea più definita dell’autore; invitava nei suoi articoli a guardare in faccia l’autore, seguendo quella veneranda tradizione che parte dagli antichi greci, passando per il De Sanctis che invitava a dedurre la malinconia del Tasso dai tratti somatici, giungendo fino a Gadda che nel prognatismo facciale di Pirobutirro scopriva una voglia di bimbo inappagata di cui per unica testimonianza era rimasto quel protrudere. E l’autore pistoiese, ci parla dell’«espressione intensa dell’autore che promette un prossimo libro», dei «folti baffi che rivelano pregnanza e perizia stilistica», di un «autore che manca di unità, come si vede dalla foto». Ho osservato una foto di Maurizio Salabelle e il dubbio che valesse più di una recensione è venuto pure a me. Varrà la pena di rammentare quell’aneddoto che lo vuole, nel 1992, all’indomani della pubblicazione del suo primo libro, vagare per i vicoli di Pistoia, seguendo percorsi tracciati con perizia per non passare di fronte alla libreria che espone il suo libro, perché non avrebbe saputo che faccia fare passandoci accanto. Vero è che evitandola, assumeva proprio l’aria dello scrittore che avendo appena pubblicato il suo primo romanzo vaga per i vicoli evitando la libreria.
“La famiglia che perse tempo” di Maurizio Salabelle (Quodlibet, 2015, pp. 168, 14 euro)
Immagine: Time di Fabíola Medeiros