Erede di una nobile tradizione (vedi i due grandi dello strumento: Mingus e Haden), il contabbassista americano si è esibito alla rassegna milanese di black music con il quartetto protagonista dei suoi ultimi album
Come di consueto in autunno, Milano si attrezza per ospitare quello che è diventato uno dei festival jazz più significativi del nostro paese. Quest’anno a jazzMi i nomi in cartellone sono tantissimi e la maggior parte di gran livello. Per iniziare, abbiamo scelto di andare a sentire il concerto di uno dei contrabbassisti più quotati della scena internazionale, Christian McBride. Al festival porta il suo progetto New Jawn, un quartetto formato con il batterista Nasheet Waits, il sassofonista Marcus Strickland e il trombettista Josh Evans, compagine particolare per la scelta di non possedere uno strumento armonico che possa sostenere l’ensemble (pianoforte o chitarra che sia).
I New Jawn hanno all’attivo due album in studio, l’ultimo dei quali, Prime, è uscito il 24 febbraio di quest’anno. I pezzi che compongono la tracklist di questo lavoro sono otto, cinque dei quali originali. E molti dei brani che il quartetto ha suonato durante il concerto sono stati tratti proprio da questo cd. Head Bedlam, la traccia che apre il disco, è stata scelta anche per iniziare il set, suscitando nel pubblico la stessa reazione che si ha ascoltandola nella registrazione. L’attacco è forte e deciso, tutti insieme i musicisti impazzano sui propri strumenti suggerendo una improvvisazione collettiva ma, dopo poco, un riff del contrabbasso sostenuto dalla batteria segna l’inizio di un tema suonato all’unisono da tromba e clarinetto basso. Un tema iconico, memorabile e assolutamente rappresentativo del sound del gruppo e delle sue composizioni, un misto di jazz e funk che affonda nella tradizione: da Mingus a Coleman, ma che si riconosce anche nell’hiphop e nelle derive più recenti della black music.
Nasheet Waits, Josh Evans, Marcus Strickland, Christian McBride
Certo il nuovo album, rispetto al precedente Christian McBride’s New Jawn del 2018, spinge un poco più in alto l’asticella della sperimentazione, andando a sfiorare in diversi momenti sonorità free.
Per capire meglio basta confrontare le due tracce che aprono i rispettivi lavori. Di Head Bedlam abbiamo parlato poco sopra. Walking Funny (che apre Christian McBride’s New Jawn) già dal nome intende rifarsi alla tradizione: il termine walking si usa nel jazz per riferirsi al tipico andamento del contrabbasso che ancora oggi è un elemento sterotipico di questo genere. Ebbene, nonostante in questo caso sia stato reso funny dall’aggiunta di gruppi di note irregolari (cinquine e terzine alternate a regolarissimi quarti), la sostanza rimane sempre quella: un solido, anche se “zoppo”, contrabbasso jazz. Non a caso questo brano è stato scelto per chiudere il concerto, andando a formare un anello in cui inizio e fine vanno a combaciare. Ecco così che si contrappongono due approcci alla musica, uno dai tratti più tradizionali e l’altro più audace ed eterodosso, proprio come i due album.
La scaletta del concerto è stata interamente formata da brani tratti dai due dischi, compreso l’allegro calipso scelto come bis e scritto da Ornette Coleman, The Good Life. Particolarmente memorabili sono stati un pezzo, Moonchild, scritto dal batterista e un secondo scritto dallo stesso McBride in onore di un suo amico, e da cui prende il titolo: John Day. Ma, composizioni a parte, l’altro aspetto che nella musica (e forse soprattutto in quella improvvisata) conta molto è l’esecuzione: l’interplay, gli assoli e tutto ciò che rende unico, di volta in volta, lo stesso brano suonato dagli stessi musicisti. Quattro musicisti eccellenti. Non sorprende, dunque, la complicità che regna tra loro: ogni strumento sostiene l’altro creando momenti di interplay e improvvisazione di grande calore.
Marcus Strickland, al sax tenore e clarinetto basso (ha suonato diversi anni con Roy Haynes) è stato all’altezza di ogni aspettativa: uno stile inconfondibile basato su un fraseggio che sottolinea l’armonia dei brani e ha reso i momenti dei suoi assoli intelligibili ed esaltanti, chiari nello svolgimento ma senza apparire didascalici.
Nasheet Waits (che ha collaborato con artisti del calibro di Andrew Hill e Fred Hersh) ha trascinato il pubblico sprigionando dalle bacchette un’energia travolgente.
Anche McBride, dal canto suo, ha fatto un paio di assoli, davvero memorabili, a volte accompagnato dal clarinetto basso, altre soltanto dalla batteria. In ogni caso ha dato prova di un talento unico, quello che lo ha reso il musicista venerato che è: un senso ritmico impressionante, frasi bluesy e melodiche con un senso della forma e dello sviluppo drammaturgico pari solo ai più grandi.
Un po’ meno in forma, se vogliamo, è apparso Josh Evans. Con uno stile geometrico e razionale, non ha avuto una serata particolarmente ispirata, affidandosi a pattern e figure tecniche trasposte, escamotage usati spesso proprio quando mancano idee originali.
Nel suo insieme non un concerto per tutti i gusti: i momenti di improvvisazione spinta privi di materiale tematico erano tanti e il caro vecchio swing, ancora fondamentale per tanti, era più evocato da qualche battuta del batterista che realmente suonato. Ma questo è il bello della musica di oggi e di interpreti autorevoli come questi, capaci di buttarsi verso nuove direzioni, sperimentare e riflettere sul presente. In un percorso di ricerca simile è facile vagare, anche senza una meta precisa, ma abbandonandosi alle idee che prendono forma nella musica stessa.