Parlare di un artista attivo e famoso come Ryan McGinley (Ramsey, New Jersey, 1977) può sembrare superfluo visto l’impatto che ha avuto sull’estetica contemporanea: illustri…
Parlare di un artista attivo e famoso come Ryan McGinley (Ramsey, New Jersey, 1977) può sembrare superfluo visto l’impatto che ha avuto sull’estetica contemporanea: illustri esposizioni (a soli 25 anni è il più giovane artista consacrato dal Whitney Museum di New York), reportage di concerti (Girls, Morrisey), videoclip musicali (Varúð dei Sigur Ros), campagne di moda (Levi’s, Hèrmes, Stella McCartney) e ritratti di VIP planetari (Beyoncé, Marion Cotillard, Kate Moss) rendono impossibile non averne intercettato le immagini pur ignorando il suo nome.
Pareva quindi assurdo che in Italia non vi fosse mai stata una personale di questo gigante generazionale, finché la GAMeC di Bergamo ha posto rimedio a quest’onta con The Four Seasons, una mostra di fotografie abbinate alle Quattro stagioni di Vivaldi: tentativo di italianizzazione dell’artista e metro di misura della sua fama (Vivaldi è infatti il compositore più suonato del mondo). Come la musica di Vivaldi è a programma, cioè di carattere prettamente descrittivo, così sono programmati e descrittivi gli scatti di McGinley, alla ricerca di uno specifico ambiente capace di esprimere ogni stagione nelle sue accensioni coloristiche.
A esperire le stagioni sono dei bellissimi teenager, pescati nelle accademie d’arte (gli artisti sono i modelli migliori, afferma McGinley) e poi portati fra i vasti landscape americani a riversare il vitalismo della giovinezza e la libertà della nudità — perché bisogna esser nudi per sentire appieno la natura, e si tenga conto che negli USA riprendere dei nudi in esterno è fuorilegge. Quale il senso di questi shooting, dal sentimento panico e dal romanticismo così spiccato, nel XXI secolo? Il rapporto stretto, mimetico e spensierato, che emerge fra uomo e natura fa pendant con una data significativa: il 23 maggio 2007 la popolazione urbana mondiale ha superato per la prima volta quella rurale. A livello locale, invece, il primo sorpasso si è verificato nel 1910 proprio negli States, patria dell’artista.
Se è vero, come diceva Rousseau, che la bontà e l’innocenza originarie dell’uomo allo “stato di natura” si corrompono nella società, allora soltanto con una fuga dalle metropoli si può tornare a quella meraviglia e a quello stupore necessari per correre nel prato, saltare giù dagli alberi e spruzzare l’acqua tutt’attorno. Ed ecco che negli scatti del 2015 si affaccia la dimensione del tempo: accanto al mito del “buon selvaggio” incarnato nell’eterno presente dell’immortale giovinezza, affiorano la carcassa di un camion o la carrozzeria di un automobile, residui di un’epoca del disincanto naufragati nella palude. In queste nuove foto i riferimenti culturali dell’artista sono più evidenti: Caspar David Friedrich per le rovine e il sentimento kantiano del sublime (specialmente nell’inverno, quando la natura è minacciosa e graffiante per il corpo nudo), la Hudson River School per l’esplorazione del paesaggio selvaggio americano, e i pittori di Barbizon per l’umiltà nel porsi dinanzi alle suggestioni del creato.
Le opere esposte, in grande formato, costituiscono una promenade fatta di sorprese e gioia di vivere; fotografare significa sì congelare l’attimo, ma l’hic et nunc spettacolare di McGinley mette voglia di muoversi e giocare. Ad accompagnare la mostra, un agile catalogo GAMeC Books: per la parte scritta, di cui si apprezza la sistematizzazione dell’artista e un’intervista con Cory Arcangel, lo si sfoglia in verticale come un taccuino per appunti; per le fotografie, lo si capovolge e si gode delle immagini riprodotte, senza interruzioni, come in un album fotografico. Niente male come prima pubblicazione italiana.
McGinley, The four seasons, Bergamo, Gamec, fino al 15 maggio
Immagine di copertina: Ryan McGinley, Jacob (Red Blueberry), 2015, courtesy l’artista e Galerie Perrotin.