Rigettate le vesti arcaiche e gli allestimenti classici, Damiano Michieletto osa il salto nel tempo e trasferisce l’ambientazione familiare di “Médée” (opera di Luigi Cherubini, in scena alla Scala) in un interno borghese tirato a lucido. E la tragedia greca si converte in un dramma di Ibsen. Michele Gamba dirige curando il suono e il fraseggio con attenzione filologica, il soprano Marina Rebeka rende la protagonista forte, concentrata e ricca di ripiegamenti espressivi
I bambini ci guardano. E se davvero c’importasse di quel che pensano e sentono, e ascoltassimo il loro giudizio (che non sbaglia mai), non saremmo afflitti da tanti massacri di famiglie. Ci risparmieremmo lo spettacolo di donne ma soprattutto di uomini ammalati di follia, assassini di compagne e di figli.
Dovremmo essere felici che un’opera in musica scritta nel 1797 possa farci riflettere sulla vita, qui e ora. E invece succede che una parte del pubblico non capisca affatto e decida di buare uno spettacolo che invita a leggere dietro le vecchie carte.
L’opera è la Médée che alla Scala si replica oggi, mercoledì 17, il 20, 23, 26 e 28 gennaio: una nobile “tragédie” avvolta nella leggenda, scritta da Luigi Cherubini, fiorentino di nascita ma venerato maestro di musica in Francia dal 1760 fino alla morte (1842). Lo spettacolo che osa il salto nel tempo e nello spazio è quello che Damiamo Michieletto ha pensato sul libretto di François-Benoit Hoffmann “d’aprés” Euripide e Corneille. Forse la colpa imperdonabile è di essere stato chiamato, Michieletto, a sostituire per ovvio ricambio generazionale lo spettacolo del 1953 con cui Medea (allora in italiano) alzò il velo sul cherubinismo in Italia e santificò “la Maria” (Callas) sul sacro suolo della Scala.
Quale storia racconta la Médée di Cherubini? Più o meno questa. Dircé, figlia di Creonte, re di Corinto, è inquieta: sta per sposare Giasone, bel maschio tornato eroe di un’impresa gloriosa, insieme agli Argonauti: rubare il Vello d’oro. Ma non è questo che la turba: Giasone sta per ripudiare Medea, dalla quale ha avuto due bambini, accusandola di una natura maligna che minaccia crudeltà su chi le sta vicino, i figli per primi. “Se ha lasciato la sua prima moglie, perché non potrebbe abbandonare anche me?”, si chiede Dircé. Non basta: l’impresa di cui si vanta, Giasone ha potuto compierla perché Medea lo ha aiutato, mettendosi contro la famiglia, perdendosi per amore. Medea chiede riconoscenza, invoca ancora amore e reclama i figli da un uomo che eroe non è e che la rifiuta, innescando una vendetta che coinvolgerà le creature avute da Giasone, per sottrarle a lui, per reclamarle a sé.
Che cosa racconta lo spettacolo di Micheletto? In un palazzo di Corinto che si chiude (o si apre) in un ambiente contemporaneo astratto (due grandi pareti in prospettiva, un salotto stilizzato, una porta bianca sul fondo, la stanza dei bambini), gli antichi greci sono donne e uomini di oggi. Una coppia sta per consumare il rito profano del divorzio e si prepara un nuovo matrimonio (per lui, solo per lui). Due bambini osservano gli adulti. Le loro voci, diffuse in scena come bisbigli filtrati dalle loro intimità, commentano i grandi e i propri destini: il re Creonte (basso retorico, Nahuel di Pierro, in doppio petto berlusconiano) non potranno mai chiamarlo nonno, tanto è estraneo e indifferente; il padre Giasone (tenore sciocco, Stanislas de Barbeyrac, in vestito pisello e camicia simil Dolce e Gabbana), vorrebbero che giocasse con loro, lo cercano, glielo chiedono, ricevendone fastidio; la nuova moglie Dircé (soprano acuto, Martina Russomanno, di biancovestita), è anche fragile e carina, ma non sarà mai la “nuova mamma”; Neris (mezzosoprano, brava e anche commovente, Ambroisine Bré), raccoglie affetto dai bambini ed è l’unica fedele alla padrona di casa (che non ha più casa). L’unica certezza è lei, Médée, che, se anche un po’ sinistramente maga (glielo perdonano), resta la mamma per sempre, in questa e in un’altra vita. Nel cuore dei bambini lo è contro tutto e tutti, nonostante la vendetta cruenta che, all’ennesimo rifiuto di Giasone, Medea consumerà togliendo loro la vita (nella tragedia di Euripide col sangue, nello spettacolo di Michieletto in un video in bianco e nero della loro stanza, dove Medea li imbocca mettendoli a letto per l’ultima volta).
Insomma, nello spettacolo pensato (ripeto, pensato) da Damiano Michieletto, la tragedia greca si converte in un dramma di Ibsen. Nell’architettura d’interni linearissima, disegnata da Paolo Fantin, con gli abiti di tutti i giorni di Carla Teti, le luci squillanti e scavate di Alessandro Carletti, si consuma una tragedia familiare, psicologicamente tornita, della quale i bambini sono coprotagonisti e soprattutto narratori, grazie ai sintetici monologhi che Mattia Palma inventa come una sorta di libretto occulto, sostituendolo ai dialoghi versificati, lunghi, illeggibili alla pratica di oggi ed estranei al gusto italiano, di cui Médée di Cherubini era fatta. Un sacrificio? Quel che si guadagna in chiarezza e messaggio registico, è molto di più.
In questa formula “contemporanea” (l’anniversario di Italio Calvino deve aver messo del suo) la musica guadagna spazio per muoversi più sciolta, senza pause. Il Coro, sempre ben impostato stilisticamente da Alberto Malazzi, canta e recita. Marina Rebeka ha nuovo agio per esprimere la sua Médée, forte, concentrata, ricca di ripiegamenti espressivi. Michele Gamba – direttore da seguire – ha più continuità per curare il suono e il fraseggio di uno strumentale con trasparenze e colori quasi “filologici”, più vicini al suono dell’orchestra di Cherubini, che Beethoven ammirava fino a copiarne certi impasti legni-archi.
In questa Médée d’interni, non più lontana ma così vicina nel gesto contemporaneo, nemmeno l’aspetto magico è sacrificato: bastano un fumo colorato, un gioco d’ombre, un grande fuoco che divampa in palcoscenico, un muro che si fende, aperto da una mano invisibile, per lanciare segnali di mistero, soprattutto nel finale che li chiede, sull’interludio meraviglioso tra il secondo e il terzo atto, vero culmine dell’opera.
Già recensendo la Medea tradizionalissima (oggi) del 1953, qualcuno aveva lamentato che lo spettacolo (Callas compresa) non avesse rispettato la “grecità” della materia prima, congelando il movimento come in un marmoreo Oedipus Rex. Dopo settant’anni, una parte del pubblico è ancora ferma lì. E noi ce la lasciamo.
Foto Brescia e Amisano @ Teatro alla Scala