Oggi parliamo della riedizione del Mein Kampf con Lillo Garlisi, fondatore e direttore dei marchi editoriali Novecento e Laurana e cofondatore di Melampo, particolarmente attenta ai temi civili.
Dopo settant’anni il Mein Kampf, esce dalla categoria dei libri tabù ed entra in quella dei testi storici. Il progetto parte nel 2009 e viene approvato tre anni dopo dalle Autorità della Baviera, proprietaria dei diritti. E così, con 500 mila euro di investimento, la Germania consegna la sua maledizione all’Istituto di Storia di Monaco che produce due volumi per un totale di 2000 pagine e più di 3500 note accademiche.
L’impressione è che si tratti di un’operazione culturale, e non editoriale in senso stretto. Ne parliamo con Lillo Garlisi, fondatore e direttore dei marchi editoriali Novecento e Laurana e cofondatore di Melampo, particolarmente attenta ai temi civili.
Nella sua forma attuale, il libro somiglia più a un testo universitario che a un potenziale best seller, qual è effettivamente il suo valore editoriale e che impatto avrebbe sul mercato italiano?
In Germania si è scelto di depotenziare l’effetto eversivo del “libro maledetto” trasformandolo – attraverso un forte apparato di note – in un libro “accademico”. Per certi versi operazione necessaria per fornire le giuste chiavi di interpretazione al lettore, per altri versi operazione che sembra figlia dell’eterno senso di colpa che il popolo tedesco ha per aver generato la mostruosità del nazismo.
Ricordiamo comunque che il Mein Kampf era un testo ideologico e con finalità propagandistiche. Non l’ho mai letto, ma credo che a parte il valore storico (nel senso: per gli storici) non penso che questo testo abbia oggi particolari motivi di interesse. E quando sarà riproposto in Italia (non ho informazioni particolari, ma immagino prossimamente) avrà una inevitabile fiammata di interesse dovuta a un prevedibile effetto mediatico, ma è presumibile che dopo poco tempo scompaia (o quasi) dagli scaffali delle librerie. Non trovo motivi di nessun genere per pensare che possa diventare un testo di qualche interesse per un pubblico ampio.
Nonostante il prezzo non proprio popolare di 59 euro, e la complessità dell’opera, le prime quattromila copie si esauriscono in pochi giorni. Tiratura sottostimata o effetto miracoloso del proibizionismo?
Non c’è da stupirsi: per un mercato che ha le dimensioni di quello tedesco e con le aspettative e le “curiosità” che l’operazione destava, una tiratura di quattromila copie non ha nulla di clamoroso, anzi. Non abbiamo ancora dati che ci possano far parlare di effetto del “proibizionismo”. Ma poi: vero proibizionismo c’è stato? Chiunque in questi anni – volendolo – era in grado di procurarsi una copia di Mein Kampf. Se poi pensiamo che in rete è facilmente e liberamente disponibile in un numero infinito di versioni e lingue, come facciamo a parlare di proibizionismo?
Gli accademici bavaresi hanno prodotto un Mein Kampf “blindato” ma da adesso in poi chiunque può ristamparlo, e in qualsiasi forma. Cosa si aspetta? Lei lo pubblicherebbe?E’ facilmente immaginabile che da oggi in poi in tutti i paesi saranno prodotte versioni del Mein Kampf. E’ anche una inevitabile legge di mercato che lo rende fenomeno prevedibile. Ci si auspica che gli editori che lo faranno, magari senza l’enorme “attenzione” usata nell’edizione tedesca, si occupino di corredarlo di quel minimo di apparato storico e di note che renda chiaro al più incauto dei lettori di che cosa si tratta.
Non sono contro la pubblicazione, ma personalmente non lo pubblicherei. E’ un testo che può interessare veramente solo uno sparuto manipolo di studiosi (che – se studiosi del tema – già dovrebbero conoscerlo) e che per un pubblico più vasto è assolutamente inutile.
Dieci milioni di copie e traduzione in venti lingue dal 1943 al 1945, una fortuna da attribuire principalmente alla macchina del regime che distribuiva l’opera con grande impegno e capillarità. In realtà le stime di lettura sono infinitamente più basse. Che ruolo hanno avuto i testi politici nella formazione del consenso?
Nei meccanismi di creazione del consenso del XX secolo la produzione e la diffusione massiccia di Grandi Opere aveva un ruolo fondamentale. La “Parola” è sempre stata centrale nel rapporto tra il Capo e le Masse, si pensi alle adunate oceaniche e ai discorsi “storici” che segnavano le tappe di svolta dei regimi. Ogni dittatore (di ogni segno politico) del secolo scorso poi produceva opere di grande dimensioni e destinate a massiccia diffusione. Feticci, reificazione del “Pensiero”. Non erano opere destinate alla lettura, erano opere che servivano a “impressionare”: il Dittatore (il Padre di tutti…) non solo era forte, ma “sapeva”. Ed era forte perché sapeva…
Il giochino era semplice ma funzionava.
E oggi che ruolo hanno?
Oggi i libri sono pressoché ininfluenti nella formazione del consenso. Forse è proprio per questo che l’editoria libraria gode di notevoli margini di libertà: perché i libri non servono più di tanto nella creazione del consenso.
I libri hanno piuttosto carattere confirmatorio. Ognuno (tendenzialmente) legge testi su tesi che già condivide, magari per approfondire.
La vera creazione del consenso oggi – è banale dirlo – passa quasi totalmente per la televisione. E in misura molto minoritaria su altri strumenti di informazione. Il ruolo della Rete è crescente ma ancora limitato a una porzione statisticamente poco rilevante della popolazione.
Nel 2001 Berlusconi fece distribuire nelle case degli italiani, all’epoca, secondo l’Istat più di 21 milioni, il volume “Una storia italiana”, 125 pagine a colori con rare foto di famiglia stampate su carta patinata. In realtà non era un manifesto politico ma la biografia di un uomo di successo. L’esperimento fu definito dal quotidiano La Repubblica, “la più clamorosa operazione di distribuzione mai tentata dall’industria editoriale italiana”. Fu davvero così?
Berlusconi (e il berlusconismo) ha segnato un grande momento di svolta nella comunicazione politica (e non solo) italiana. Sin dalla sua discesa in campo ha cambiato il paradigma che fino ad allora aveva retto il sistema politico italiano: il leader prima era un uomo colto e “noioso”. Una persona che “ne sapeva più di noi”. Che si parli di Togliatti o De Gasperi, di Moro o Berlinguer, così era.
Con Berlusconi si afferma il modello per cui il leader è “uno come noi”, magari più furbo, più abile, più ricco, ma “uno come noi”. Insomma nessun senso di inferiorità morale o culturale nei confronti del leader. Sotto sotto il messaggio era: “io ce l’ho fatta, anche tu potresti farcela”.
L’operazione messa in atto con il volume (in formato rivista!) “Una storia italiana” era l’oggettivazione di tutto questo: “Io Berlusconi ti racconto la mia storia di successo, invidiami e ammirami, ma non avere nessun timore referenziale nei miei confronti: io sono il tuo vicino di casa o il tuo compagno di banco delle elementari che ce l’ha fatta!”.
Ricordiamo anche che questo è stato un punto di arrivo di una studiata campagna di posizionamento. Tant’è che in una fase precedente – solo pochi anni prima – Berlusconi con il marchio editoriale a sé stesso intitolato (la “Silvio Berlusconi Editore”) pubblicava opere come “Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam, firmandone addirittura la prefazione.
Il cambio di passo, in seguito a mutate strategie, risulta evidente.
Che fetta di mercato hanno oggi i manifesti politici nell’editoria italiana?
Dipende da cosa intendiamo. I libri con argomenti politici sono sempre molto richiesti, come genere. Ma si punta su questioni di attualità o del recente passato.
Se invece per manifesti politici intendiamo opere di tipo generale, complesse, etc, che esprimono una compiuta visione del mondo, lo spazio è assai esiguo.
Pensiamo a opere che nel passato – anche non lontanissimo – riscuotevano un certo successo in termini di diffusione (“Il Manifesto” e “Il Capitale” di Marx, “Stato e rivoluzione” di Lenin, per fare degli esempi). Di queste opere non c’è quasi più traccia in termini editoriali.
Viviamo in epoca di minimalismo. E l’editoria riflette sempre l’epoca che viviamo.
Immagine di copertina by Val Kerry