A Lugano Sergio Blanco mette in scena un monologo sulla semplicità nel parlare di morte. Sarà mai possibil
Dovremmo essere abituati a sentir parlare di morte perché il premiatissimo drammaturgo, regista attore franco-uruguaiano Sergio Blanco, non a caso esperto di filologia classica, ci dice all’inizio della sua chiacchierata che pare macabra ma non lo è, anzi è piena di grazia, che abbiamo addosso 108 miliardi e 800.000 cadaveri, che sembrano perfino pochi di fronte all’eternità.
Il suo monologo intitolato per non creare dubbi Memento mori ((Fit Festival, Lac di Lugano) non ha mai l’ufficialità, la retorica, il sussiego del discorso ai posteri ma solo l’affetto, la bella confusione, l’intelligente cordialità della chiacchiera colta dove in una trentina di capitoletti si parla di vita e letteratura, di amici amati scomparsi e di grandi autori.
E si mostrano bellissime foto che per comodità potremmo chiamare immagini di vita post tutto, squarci di materiali in disuso o rovinati dal tempo, senza presenze umane ma solo evocazione di disastri. La sola immagine con molta gente colorata arriva in finale di partita (lo spettacolo ha la durata esemplare di 70’) ed è una scena di piccola folla variopinta che attende il verde per passare un semaforo (ma poi ognuno la interpreta come vuole, a me sembrava una scena di crociera).
Per il resto l’umanità non c’è se non nelle parole e nelle memorie a volte lancinanti di questo insolito interprete di se stesso, comico e spalla, clown ed Augusto di una vita che s’intuisce non semplice e non risolta affettivamente, con ricordi acuminati come lame di coltello che risalgono ad antichi compagni di scuola che non sono riusciti a diventare compagni di vita.
Memento mori, a onta del titolo, non è qualcosa di triste anche se ha momenti di intensa e contagiosa commozione, perché Blanco, anche con grande tecnica, usa il binocolo affettivo un po’ da vicino e un po’ da lontano, entrando e uscendo dal teatro melodrammatico per entrare in quello didascalico e così facendo creandone uno tutto suo che parte da una conferenza (un tavolo, un computer, alcuni libri, pile di fogli, oltre alla lampada e a un proiettore) e diventa quasi senza accorgersene incandescente materia di vita e letteratura, chiamando come un medium grandi del passato come Wilde ed altri.
Blanco, ospite spesso di festival italiani e speriamo presto anche a Milano, dimostra che si può parlare di morte senza evocare solo il dolore, ma anche esplorando tutti i complessi filamenti che lo rendono tale, come una necessità per poter guardare davanti. La “celebraciòn de la muerte” (l’attore nato a Montevideo vive a Parigi) è un monologo conferenza che parte dall’auto finzione ma senza mai esagerare nell’immedesimazione controllata.
A teatro abbiamo spesso convissuto con le danze macabre e con le conversazioni con la morte, dai nordici a Bergman al nostro Testori, ma in questo caso siamo di fronte a una conversazione radicale ma informata tanto che Blanco ne parla come la stesse vivendo per noi in quel momento, hic et nunc. Ci informa per esempio anche che il processo di deterioramento post mortem dura esattamente 9 mesi, come quello della nascita, il che non può essere un caso, almeno se lo si sente dire su un palco. Tormento ma anche soddisfazione quasi felice nel poter parlare della fine e quindi raccontarci i momenti tragici che poi sono quelli che ci ricongiungono alla vita. Magari attraverso il teatro e il mistero di stare insieme.
Foto © Matilde Campodónico