Riscoprire l’importanza del ricordo, dell’analisi, della memoria storica: come risorsa e come speranza per il futuro. Con il vostro irridente silenzio, che inaugura la nuova stagione del Piccolo Teatro di Milano ed è in scena al Teatro Grassi fino al 17 ottobre, è un vero e proprio “colpo” alla memoria, quella collettiva
FOTO © MUSACCHIO, IANNIELLO E PASQUALINI
Riprendere ad andare a teatro è un po’ come tornare a casa dopo una vacanza: ritroviamo un luogo conosciuto e con sollievo riconosciamo che la nostra memoria non ci ha ingannato, è come ricordavamo. Negli scorsi mesi si è parlato molto della necessità del teatro, della sua insita e continua spinta a interrogarci su noi stessi e sul mondo che ci circonda. Lo spettacolo che ci propone Fabrizio Gifuni fa proprio questo, mette alla prova la nostra memoria e ci spinge a farci domande: ricordare è una perdita di tempo? Pensare al futuro significa davvero dimenticarci del passato e guardare avanti? Cos’è la coscienza storica?
Con il vostro irridente silenzio, che inaugura la nuova stagione del Piccolo Teatro di Milano ed è in scena al Teatro Grassi fino al 17 ottobre, è un vero e proprio “colpo” alla memoria, non la nostra in particolare, ma quella collettiva su cui tutti contiamo in quanto cittadini e in quanto membri di una comunità; è un terremoto morale, non solo perché affronta una pagina tragica della storia italiana ma soprattutto perché lo fa in un modo completamente inaspettato, dando voce ai testi, agli scritti, alle parole che descrivono quella pagina di storia “dall’interno”.
Come spiega Fabrizio Gifuni prima che inizi lo spettacolo, ideato, scritto e interpretato da lui stesso, il cuore della sua ricerca sono proprio le carte che Aldo Moro scrisse durante la sua prigionia: non la vicenda in quanto tale, indagata già in diversi lavori, teatrali e letterari, non la politica di quel periodo, con il suo alone che ancora a distanza di anni risulta grigio, non i risvolti umani, fin troppo evidenti dalle lettere di Moro alla famiglia. Gifuni in questo monologo scompare per lasciare il posto alla parola pura e definitiva, all’ossatura stessa di tutti gli scritti dei 55 giorni di prigionia. Emergono quindi la precisione delle parole scelte, l’acutezza delle descrizioni, la lungimiranza di Moro nonostante l’isolamento: il linguaggio con cui comunica l’abbandono e la consapevolezza della propria condanna sono così chirurgici da risultare struggenti.
Non stupisce quindi che la genesi del progetto di Fabrizio Gifuni arrivi da lontano, su stimolo di Nicola Lagioia, direttore del Salone del Libro di Torino, e si inserisca in un più ampio quadro di indagine definito “antibiografia di una nazione” che, con Giuseppe Bertolucci e Christian Raimo, l’attore romano sta portando avanti da diversi anni (negli spettacoli precedenti ha indagato gli scritti e la vita di Pier Paolo Pasolini e Carlo Emilio Gadda). Questo spettacolo infatti è un esperimento teatrale e fin dall’inizio mira a “misurare” il livello di attualità della vicenda Moro utilizzando come indicatori le sue parole, raccolte nelle lettere e nell’incredibile opera sociale e politica che è Il memorialedi Aldo Moro, dove sono state riportate le sue risposte all’interrogatorio cui venne sottoposto dalle Brigate Rosse.
Gifuni in scena è letteralmente circondato dalle carte, illuminate come materia viva pronta a esplodere; ci appare solo e indifeso, armato unicamente dei testi scelti per parlare al pubblico, parte integrante dell’esperimento: riflessioni politiche tratte dal memoriale si alternano a stralci di disposizioni testamentarie, lettere alla famiglia, appelli agli amici, al papa e alle istituzioni, sfoghi di scoramento e impotenza. Non c’è pausa, non c’è respiro nel continuo avvicinarsi della fine, inevitabile, conosciuta, registrata come fatto storico eppure ancora così incomprensibile.
Con il continuo mescolarsi di vita pubblica e privata, questo incedere dirompente in cui la fine di un pensiero coincide con l’inizio di un’altra riflessione è il filo conduttore dello spettacolo. Come se fossimo noi l’imputato, aspettiamo per l’intera durata del monologo un verdetto che sappiamo già essere di condanna. E chi tra gli spettatori ha vissuto quei giorni si chiede: ma dov’ero io mentre accadeva tutto questo?
“Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la D.C. che, nella sua sensibilità ha il pregio d’indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco.”
Dalla lettera a Benigno Zaccagnini, recapitata il 4 aprile 1978