Memoria del prigioniero

In Weekend

Dal gulag al lager, dal confino alla fortezza austriaca le imprese intellettuali di chi non si arrende. Grazie a Proust, a Euridice e alla propria memoria

Uno degli omaggi più belli alla sua opera-cattedrale Marcel Proust lo riceve in un gulag sovietico. Tra il 1940 e il 1941, l’Armata Rossa ha fatto prigionieri circa ventimila ufficiali polacchi: quasi tutti verranno assassinati, una piccola parte sopravviverà. Tra i prigionieri che non vengono eliminati c’è Jozef Czapski (1896-1993), soldato quasi controvoglia, pacifista e tolstoiano, pittore (buon pittore post-cezanniano: online trovate molti dei suoi quadri), critico d’arte (secondo Wojciech Karpinski, che ne racconta la vita a conclusione di questo libro, il più grande scrittore d’arte polacco del ‘900), appassionato di letteratura francese. E di Proust, che ha letto per intero in Francia durante una lunga convalescenza.

Czapski e i suoi compatrioti sono prigionieri a Grjazovec sulla Vologda, quattrocento chilometri a nord di Mosca. La sera, sfiniti dai lavori forzati all’aperto, fuori la temperatura scende anche a 40 gradi sotto zero, decidono di tenere dei corsi di cultura generale. Per non arrendersi a chi vuole fiaccarli, oltre che nel fisico, nel morale. A chi prova ad annientarli. Ognuno condividerà quel che sa, Czapski sceglie Proust. Prende degli appunti (li trovate, deliziosi, a volte ricordano un disegno di Klee, nelle illustrazioni di questo Proust a Grjazovec, Adelphi, a cura di Giuseppe Girimonti Greco, . E una sera attacca: «Solo nel 1924 mi capitò fra le mani un volume di Proust. Ero da poco arrivato a Parigi, e della letteratura francese conoscevo a malapena certi romanzi di autori minori…».
L’avventura può cominciare. Il testo, trascritto da alcuni commilitoni e fatto evadere dal campo di prigionia, è degno di nota per almeno due motivi. In primo luogo perché è un omaggio alla Recherche di grande finezza (paralleli con Tolstoj e, tenetevi forte, con Blaise Pascal: Proust come grande moralista) e di straordinario fervore. L’omaggio che uno spirito nobile rende alla grande arte.
E in secondo luogo perché Czapski è un affabulatore seducente, oltre che un uomo dalla memoria formidabile. Le conferenze su Proust, infatti, si basano su quel che Czapski ricorda, senza nessun testo di supporto. E anche le inesattezze – poche, pochissime – fanno parte del fascino di Proust a Grazjovec.

In carcere – parlo dei detenuti politici, i comuni hanno altre risorse: per esempio la ginnastica, come Chazz Palminteri in Bronx; o le trame dei vecchi film, come William Hurt nel Bacio della donna ragno; o ancora gli uccellini, come Burt Lancaster che in carcere diventa ornitologo: il film è L’uomo di Alcatraz –  chi non si arrende compie non di rado imprese intellettuali che hanno del tour de force. Penso ovviamente ai Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, prima c’era stata almeno La consolazione della filosofia di Severino Boezio, fatto uccidere in prigione da Teodorico, mentre Grjazovic fa venire in mente i corsi tenuti dai confinati antifascisti a Ventotene.
Il carcere, mobilitando la memoria dei suoi ospiti, a volte spinge al virtuosismo: nella mirabile Novella degli scacchi, l’ultimo racconto che Stefan Zweig scrisse nel 1942 prima di suicidarsi a Petropolis in Brasile, il dottor B., prigioniero dei nazisti a Vienna e tenuto in isolamento, per non impazzire si “costruisce” una scacchiera mentale per sfidare i più grandi giocatori di tutti i tempi e, alla fine, anche se stesso.

E a Mantova nel 1852, incarcerato dagli austriaci nel Palazzo Ducale, un patriota mazziniano (Luigi Pastro, 1822-1915, nel 1910 nominato senatore del Regno), reagisce con un sonetto. Questo:

A febbre, a fame, a stenti in preda io verso;
te sentir però allegra spero, e presto;
e render lieto in tal pensier mio verso
ometter non potrai; or pur mi presto;
né ombra ti fien le lagrime ch’io verso!
Al rovesciar dei troni io fede presto:
t’arride Iddio, che a te rivolto inverso
i forti accenna: a vendicar son presto,
ve’ d’onde pei tiranni il fulmin parte?
Ode potente… e le nazioni sole
si destano in un punto, e d’ogni parte
un urto sol dai re salvarle sòle;
o moto imprime all’Io che certo parte
le lente nubi onde specchiarsi al sole.

Non vi piace? Non state a sottilizzare sulla qualità apparente dei versi, la bellezza qui è ben nascosta: il sonetto è un quadruplice acrostico. Leggete dall’alto in basso le prime, le seconde, le terze e le quarte lettere di ogni verso. Ne ricaverete quattro settenari di quattordici lettere:

A te, o nativo suol,
ferm’è la fed’in me:
e se morrò de duol,
bene morrò per te!

Notevole, vero? Straordinario è che quel sonetto, con il suo messaggio nascosto, sia stato composto a mente, senza carta né penna, senza inchiostro né calamaio.

In altri campi di concentramento, ad Auschwitz e a Birkenau, matura e prende forma un altro testo straordinario, Spettri, miei compagni (in Italia lo ha pubblicato Il Filo di Arianna), che del Proust a Grjazovec è uguale e contrario. La storia, e l’autrice, meritano di essere raccontati. Charlotte Delbo (1913-1985), scrittrice di memoria (Donne ad Auschwitz, Gaspari editore) e, nel dopoguerra, coscienza vigile contro gli orrori dei suoi giorni (celebri gli interventi contro le torture dei militari francesi in Algeria), è figlia di italiani fuggiti dalla fame delle valli valdesi in Piemonte, un nonno che aveva lavorato con Eiffel. Famiglia operaia, nessuno studio regolare da mettere nel curriculum ma «ho fatto della filosofia con Henri Lefebvre». Giovane comunista, autodidatta di quelli che si coltivano, che si migliorano per il “prossimo” chiunque esso sia, convinta che «la poesia è la migliore arma per combattere la gente che voglio combattere». Negli anni ’30 frequenta l’Università Operaia, diventa redattrice di una rivista culturale e nel 1937 le accade di intervistare Louis Jouvet (1887-1951), mostro sacro del teatro francese e attore di rilevo nel cinema classico. Per capirci, qualche Renoir, due Carné e uno è il capolavoro Albergo Nord, un classico del noir (Alibi di Pierre Chenal), molti Duvivier: io lo ricordo, attore fuori tempo massimo ed egotico che si illude giovane e seduttore nel duro e struggente I prigionieri del sogno, uno dei film meno consolatori che abbia visto sulla vecchiaia.

Jouvet, incantato dalla passione e dall’esattezza della giovane militante, la assume come sua segretaria. Charlotte Delbo non deve soltanto organizzargli il lavoro e programmargli le tournée, ma anche trascrivere le sue lezioni di teatro. Pubblicate da Gallimard e ancora reperibili, saranno l’opera non soltanto del docente ma anche della stenografa. Il sodalizio fra Jouvet e Delbo, che intanto ha sposato il militante comunista Georges Dudach, dura fino al 1942. Fino all’arresto di Georges e Charlotte: fucilato lui, avviata nei lager tedeschi come “politica” lei (sarà compagna di camerata di Vittoria Nenni, figlia del leader socialista Pietro, ad Auschwitz, e testimone della sua morte).

Di quel soggiorno all’inferno resta appunto Spettri, miei compagni, che è un memoir in forma di lettera all’attore Louis Jouvet. Comincia così: «Caro Louis Jouvet, se Euridice ritornasse, chiedendole un appuntamento, è probabile che glielo accorderebbe, soprattutto se le dicesse che è per parlare di teatro. Ho visto il suo inferno (a teatro, ndr). Come è grazioso: quei diavoli con le ali, le corna, il piede biforcuto, che scendono dal soffitto appesi al loro filo facendo smorfie e boccacce! Se sono diavoli, allora bisogna trovare un altro nome per quelli che ho conosciuto io. E le fiamme? Scaturiscono dal fuoco di bengala. Fiamme pure e morbide che non puzzano di carne umana. Ma io, a differenza di Euridice, dall’inferno sono tornata: non era affatto un luogo favorevole al sogno. Che rapporto poteva avere con il teatro? Eppure…».

Charlotte Delbo resiste al lager con l’aiuto dei fantasmi-personaggi: Euridice, Don Giovanni, Ondina, Arpagone. L’immaginazione qui non è soltanto evasione e rifugio, ma anche gioco dell’intelligenza contro la brutalità, rifiuto di farsi inghiottire dall’universo concentrazionario. Charlotte Delbo distingue fra i personaggi teatrali, che devono affermarsi qui e ora sulla scena, e quelli romanzeschi che possono sbocciare e maturare. Evoca Fabrizio Del Dongo eleggendolo, lui carcerato nella Certosa di Parma, a compagno di prigionia.

Ma a differenza di Jozef Czapski e del suo Proust a Grjazovec, questa lettera sull’immaginario (sulla bellezza, sull’arte), vivida di intelligenza e penetrazione, si fa confessione nuda e lancinante di resa all’orrore, dopo che l’orrore materiale è cessato, dopo la liberazione dalla prigionia: gli anni delle cliniche, della torpida disperazione che nessuna cura riesce a scalfire, dell’incapacità di leggere anche una sola pagina, straniera a se stessa, perdura a una cultura che le sembra vana, perché non può neanche lontanamente rendere l’orrore. Il gorgo e la lenta, difficile riemersione ci consegnano un eroismo quieto e vero che assume il dolore, la sconfitta e la colpa di essere vivi. «Io, ero risalita alla superficie di me stessa, e tutto ciò che mi circondava non erano che spigoli taglienti e brucianti di oggetti, di colori, di reminiscenze, di associazioni, di evocazioni che testimoniavano che G. aveva vissuto, mi aveva amato, che l’avevo amato e che non ero morta per averlo lasciato il mattino che andava a morire».

Immagine di copertina: Filo spinato di Alessandro Comuzzi

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