Al Teatro della Pergola di Firenze, dal 5 al 10 novembre, torna l’attesa regia di Maurizio Scaparro con Memorie di Adriano, lo spettacolo liberamente tratto dal libro di Marguerite Yourcenar. “Se chi ama il bello, finisce per trovarne ovunque”, sarebbe un reato fariseo lasciarsi scappare un omaggio così ben riuscito a uno dei più significativi capolavori letterari del ‘900. Per intenderci, Pino Micol interpreta Adriano e il ballerino Federico Ruiz è Antinoo. Occorre davvero aggiungere altro?
Ovviamente sì. Occorre sempre aggiungere altro.
Infatti l’ultima volta che Maurizio Scaparro ha firmato la regia di Memorie di Adriano, il ruolo principale dell’imperatore pre-umanista per eccellenza veniva eccelsamente interpretato – ed è risaputo – da un Albertazzi di 92 anni, elegante, meditativo e profondo come sempre.
Dopo quasi cinque anni, quasi un lustro di attesa, la regia ha sentito la necessità di rimettere in scena un nuovo allestimento, pensato fondamentalmente per contrastare la superficialità e l’ignoranza seminate dai ‘fondamentalismi’ comuni al giorno d’oggi, ma non solo.
A dare voce, anima e corpo al protagonista, e a farne di fatto un’interpretazione modulata e sobria, ma soprattutto sentita a livello vocale, è un inimitabile Pino Micol. Proprio perché inimitabile, il fantasma del suo predecessore non viene né verrà mai superato, ma viene comunque rimodellato secondo una dedizione e un’elaborazione molto attente ad aderire al ruolo di un Adriano prossimo all’estremo passaggio.
Se il primo e l’ultimo applauso d’insieme se li merita la Yourcenar (e li meriterà sempre e comunque!), il maggior gradimento respirato tra i palchi della Pergola se lo guadagna il timbro pensoso e riflessivo di Pino Micol, riuscendo a evadere dalla corporeità dei suoi soliti doppiaggi e facendo ingresso nella delicata consapevolezza della vecchiaia di un attore/imperatore.
L’animula vagula blandula, come nel libro, prosegue la sua narrazione cronologica con i ricordi e le riflessioni che preannunciano la fine dei suoi giorni, e danno peso e costante importanza a ciò che nella sua essenza più effimera è anche l’emblema di tutto l’impero adrianeo: ovvero una sviscerata e necessaria ricerca della bellezza. Un’estetica matura per giungere alla perfetta, ma anche utopica, corrispondenza di un lusso mai estremo e di un abbattimento della povertà, di un incontro tra la morale e l’etica di chi ha potere e lo offre in pegno di una comunitaria armonia.
E a proposito di armonia, Scaparro decide di far danzare il giovane Antinoo con le coreografie di Eric Vu An e dall’estroflessa e fine muscolosità di Federico Ruiz. Prima che il giovane amante anneghi tra le tende della parete di fondo, rispettando una musicologia cronologicamente affine a quella che si sarebbe potuta udire, così sembra, all’epoca di Adriano, si assiste al panegirico delle forme fisiche.
Quella di Ruiz è una danza che racconta e abbellisce il bisogno corrisposto tra un uomo maturo e un giovane, al fine di saziare una passione efebica, per mezzo di un adepto intimorito dalla decadenza fisica, e per niente volgare nella sua nudità.
Va comunque detto che alcune tempistiche di regia cercano di alternare il recitato pacato di Micol al musicale delle percussioni, talvolta non sempre riuscendo a far coincidere gli stacchi; è come assistere a un recital nel II secolo d.C.
A proposito di musica e di canto, Evelina Meghnagi, Arnaldo Vacca e Cristiano Califano rievocano con le loro note una componente sacrale e tellurica, e danno avvio a un’ipnosi che induce a un interessato intorpidimento, come se fosse un rito preparatorio a un funerale che sta per incombere.
Il pubblico applaude soddisfatto, c’è chi sente la necessità di organizzare il prima possibile una vacanza nei pressi di Tivoli, e c’è chi affezionato ad Albertazzi si commuove e lo dimentica, perché proprio come sostiene la Yourcenar nel suo libro, nella dimenticanza rendiamo eterno il nostro vero ricordo.
Il finale respira il grande senso dell’impegno culturale ed esistenziale di Adriano. La tenda di fondo crolla, come se fosse un omaggio allo Strehler de I giganti della Montagna o di La Tempesta.
Ancora una volta, dopo quasi cinque anni, un atto unico che riconferma la bellezza ancora da scoprire dinanzi ai capolavori letterari e mimetici che si sposano perfettamente sulla scena e che ritroviamo come radici del nostro pensiero occidentale.