Alfredo Cecchetti, cineoperatore dell’Istituto Luce, sbarcò nel 1939 a Durazzo con le truppe di occupazione fasciste. Alla caduta del regime, il nuovo stato liberato lo “trattenne” per immortalare i nuovi leader, le parate popolari, il comunismo realizzato. Roland Sejko, albanese d’origine, ricostruisce una figura realmente vissuta in un docufilm con licenze fiction e importanti immagini d’epoca
E’ davvero un documentario particolare e creativo La macchina delle immagini di Alfredo C. di Roland Sejko, passato all’ultima Mostra di Venezia. Per ciò che descrive e per come lo fa. La storia è quella di Alfredo Cecchetti, un cineoperatore al servizio di due dittature, si potrebbe dire. Il fascismo imperialista prima e il regime comunista di Enver Hoxha poi. Lui stesso si racconta e ci racconta questi due mondi, antitetici ma simmetrici nel considerare l’informazione inevitabilmente propaganda, forse distanti dal suo
modo intimo di vedere il mondo ma alla fine così protagonisti delle sue immagini.
Lo fa ritrovando il suo lavoro, quasi facendo il bilancio di una vita, ma soprattutto mostra preziose immagini recuperate all’Istituto Luce e in altri archivi: i tic di Mussolini e le sue idiosincrasie (essere ripreso di spalle era una) le adunate di piazza Venezia viste da dietro il famoso balcone, l’esaltazione delle folle oceaniche e lo sbarco nelle colonie, in questo caso l’Albania, nella primavera del 1939.
Perché Alfredo c., la cui macchina delle immagini, come dice il titolo del film
alludendo alla macchina del consenso del fascismo, creata anche con l’uso
orientato dei cinegiornali, è stato uno dei 27mila italiani bloccati lontano dal loro
paese cinque anni e mezzo dopo il baldanzoso sbarco a Durazzo, vittime dello
sfascio del regime e dalla liberazione di quel paese d’oltremare. Il nuovo regime di
Hoxha decise di chiudere i confini ponendo all’Italia molte condizioni per il
rimpatrio dei suoi cittadini (e parecchi tornarono morti). Erano operai, soldati,
medici coloni, tecnici, ingegneri e cineoperatori, merce rara da quelle parti. A lui, dopo una notte in cui da uomo della propaganda del fascismo si era trasformato in “compagno operatore”, toccò di venire assoldato dal comandante per documentare il nuovo corso, gli evviva e gli abbasso, la sfilata della liberazione nel centro di Tirana e i bagni di folla dei nuovi governanti. Ma anche le fucilazioni,
evidentemente pedagogiche, dei “sabotatori” italiani rimasti lì. Spesso lo
affiancava un regista/operatore russo, giusto per “dargli la linea”.
Sejko, albanese di nascita ma da trent’anni romano, vincitore del David di
Donatello con Anija/La nave, lavora da molti anni a Cinecittà, dirige la testata
giornalistica dell’Archivio e conosce a fondo e soprattutto ama (nel film si vede
palesemente) lo sterminato mondo dei materiali Luce, in mezzo ai quali sono nati
molti dei suoi film. Come questo racconto storico sociale, che parte dall’idea di
ridare movimento ai fotogrammi d’archivio ma poi diventa un’eccentrica biografia
in cui il soggetto in questione, Alfredo C., non si vede mai: lo “interpreta”,
senza dire una parola ma solo armeggiando alla moviola, tra le pizze e gli
scatoloni di un immenso magazzino, l’attore Pietro De Silva. Spesso lo si sente
parlare, con una voce fuori campo che recita una sorta di monologo interiore in cui
si alternano commenti sui fatti dell’epoca, annotazioni tecniche sul suo lavoro,
frammenti di una storia personale, di cui non ci sono tracce dopo il 1946. Il regista ha fatto su di lui
ricerche in proposito, ma senza successo. Tanto da ritrovarsi, alla fine, a
ricostruire un personaggio storico, realmente esistito, dovendo fare uso anche
delle armi della fiction, della scrittura, della fantasia..
La macchina delle immagini di Alfredo C., documentario di Roland Sejko con Pietro Da Silva