La sofferenza, il disagio, la rabbia: Daniele Mencarelli costruisce nel suo ultimo romanzo, pubblicato da Mondadori, un dispositivo di indagine nello stato di salute di un uomo, di un ambiente, di una società. Con speranza.
Prigionia e assoluzione in un mondo di pazzi. Daniele Mencarelli scrive la storia di chi è identificato dal mondo esterno come un malato di mente ed è destinato ad uno spazio deciso dagli altri. Tutto chiede salvezza, per davvero. Chiedono salvezza gli infermieri precari che assistono, inermi, alla distruzione personale dei pazienti che devono proteggere, chiedono salvezza i medici che stremati dalle ore di lavoro trattano inevitabilmente coloro che dovrebbero curare come casi anonimi, ripetitivi, da sedare con le reazioni chimiche dei medicinali.
E poi ci sono loro, i malati, che chiedono più di tutti salvezza, e normalità.
C’è Daniele, il protagonista, che al suo interlocutore porge soltanto la preghiera di una guarigione e che nutre la speranza di raggiungere la pace interiore attraverso la sua poesia. Ci sono i suoi compagni di stanza: Gianluca, un uomo che lotta tra il sé maschile e il sé femminile impugnando l’arma della follia cosciente; Giorgio, il gigante buono che polarizza la sua esistenza tra l’animo gentile e la rabbia omicida di Hulk; Mario che affida la sua vita alla presenza costante di un uccellino appena nato che scorge dalla finestra; e infine, a chiudere la carrellata dei componenti di questo circo mentalmente instabile, ci sono Alessandro e Madonnina, il primo assente a sé stesso e agli altri, con un padre che per tentare di risvegliarlo ogni giorno gli tira un pizzico, il secondo che ad ore imprecisate del giorno e della notte, come se fosse azionato da un interruttore invisibile comandato da una qualche sadica divinità, urla la sua frase dal valore apotropaico “Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia!”.
– Non sto dicendo che non esista la malattia mentale, ci mancherebbe. Ma oggi non si cura più solamente la malattia mentale, oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare. Ormai tutto è malattia, ma vi siete mai chiesti perché? –
Mario ci domanda con gli occhi ma nessuno risponde.
– Perché un uomo che s’interroga sulla vita non è più un uomo produttivo, magari inizia a sospettare che l’ultimo paio di scarpe alla moda che tanto desidera non gli toglierà quel malessere, quell’insoddisfazione che lo scava da dentro. Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.
Daniele Mencarelli è prima di tutto un poeta. E questo si avverte nella sua scelta meticolosa di termini e di immagini, minuziosamente cesellate per descrivere una realtà bipolare come quella che si può trovare in un TSO.
Le voci semplici, le domande spontanee che trovano lo spazio nei brevi momenti ossimorici di tranquillità dei malati si articolano sul significato di cosa significhi essere dei matti in un mondo di sani. E la risposta non esiste, la risposta rimane a galleggiare nel tempo definito dei sette giorni necessari per essere ributtati nel mondo concreto dopo quella prigionia forzata.
Ma c’è la speranza che è il collante di tutto. L’umanità dei personaggi si concretizzano nella loro vita umile, nei loro progetti a breve termine che servono da catalizzatori per mirare a quella sanità necessaria per considerarsi uno tra molti, tra troppi. La speranza, che ben si collega alla salvezza del titolo, è quella che si ritrova nella gentilezza inaspettata di un infermiere burbero abituato a dover interpretare il ruolo di duro e con il progetto di aprire un’attività tutta sua con la collezione forsennata di ore di straordinari, è quella che si ritrova nella disponibilità di una infermiera incinta a soddisfare la voglia di pizza degli occupanti della stanza, pizza desiderata per assistere a una partita di calcio da guardare in una tv malmessa, è quella che si concretizza nell’abbraccio tra due individui che con molta probabilità non si vedranno mai più ma che tanto hanno condiviso in soli sette giorni.
Bastava talmente poco. Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una sola volta. Invece non l’hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani. Questo abbrutimento è la scienza? Non aprirsi mai alla pietà, svuotare l’uomo sino a farlo diventare un ingranaggio di carne. Sentirsi padroni di tutte le risposte. È questa la normalità? La salute mentale? La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai. Una settimana fa volevo ammazzare la vita per la sua totale illogicità, per la certezza che nulla è prevedibile, che mi tocca in dote la maledizione di vivere senza mai farci l’abitudine, a niente, al bene come al male. Vivrò da infelice, prima o poi il dolore avrà la meglio, ma non siete voi quello che voglio diventare
I personaggi si ritrovano a brancolare in un buio fatto di pillole, di diagnosi sommarie, di etichette impresse sulla pelle. E l’eterno combattimento tra ciò che può essere definito globalmente normalità e ciò che non lo è: la violenza emotiva descritta in queste pagine, violenza che si rende concreta sotto forma di distruzione, è malata, esagerata, esplosiva, così come l’ossessione, la tendenza all’errore, la tristezza empatica e la catalessi autoindotta. Ma non sono anche queste semplici sfumature della normalità? Non siamo, anche noi normali, violenti, ossessivi e ossessionati, tristi? Qual è il confine, quale il margine che, una volta superato, ci relega in un mondo di segregazione e di incomprensione?
È vero, tu sei bipolare, io psicotico, dico solo che a essere sbagliato è il punto di partenza della scienza, è la stima iniziale rispetto a cosa sia l’uomo, l’universo, è lì la loro miopia. Tutto quello che l’uomo ha fatto di eccezionale in passato è stato anche grazie a quelle caratteristiche che oggi cataloghiamo come sintomi, patologie, come la capacità di farsi ossessionare da una determinata cosa, un progetto, un’idea, un’opera d’arte. Dico solo che loro non vogliono curare, ma depurare, purgare, invece dovrebbero saper dividere la follia buona, costruttiva, da quella cattiva, distruttiva