Attori di altissima qualità (Olivia Colman su tutti, ma anche Colin Firth, Toby Jones e il giovane Michael Ward) in “Empire of Light”, film n.9 del regista inglese. Che racconta, nella dura Inghilterra thatcheriana degli anni 80, l’ultima stagione di una grande sala e la sua variegata umanità, finendo vittima della sua sceneggiatura. Il film parte con buone premesse (i ricordi d’infanzia di Mendes, le ombre in movimento che l’hanno stregato da piccolo), ma diventa via via debole e schematico
Inghilterra, 1981. In una cittadina affacciata sul mare, l’Empire svetta come un faro. È una grande, lussuosa sala cinematografica che ha visto giorni migliori e per sopravvivere ha dovuto chiudere due delle sue quattro sale, ma ancora resiste. Anche se il suo declino è ormai irreversibile, è ancora in grado di illuminare i dintorni, e con le sue luci e il suo calore sembra capace di offrire un riparo non solo agli occasionali spettatori in cerca di qualche ora di svago, ma anche e soprattutto ai suoi dipendenti.
In primo luogo Hilary (Olivia Colman), coscienziosa fino all’abnegazione. Vive infatti il suo lavoro come una sorta di missione, al punto da non riuscire nemmeno a trovare il tempo di entrare in sala a vedere anche uno solo dei tanti film che le passano letteralmente davanti. Hilary è una donna sola, non giovanissima, fragile, reduce da un ricovero in un ospedale psichiatrico. Le tante delusioni subite nella vita l’hanno abituata a non pretendere nulla e ad accettare con gratitudine anche le briciole di amore (o presunto tale) che il mondo degli uomini le riserva. E infatti, pur traendone solo infelicità, non riesce a sottrarsi alla relazione tossica con Mr. Ellis (Colin Firth), il cinico e ambizioso direttore del cinema.
A imprimere alla situazione un radicale cambiamento sarà l’arrivo di Stephan (Micheal Ward), un giovane di colore che ha accettato un lavoro come maschera in attesa di riuscire a entrare all’università, ma si ritrova a combattere quotidianamente con il razzismo diffuso nell’Inghilterra thatcheriana. La relazione tenerissima e appassionata tra Hilary e Stephen porterà nella vita di entrambi una luce nuova, la possibilità di uno sguardo diverso su sé stessi e sul mondo.
Arrivato a Empire of Light, il suo nono film, Sam Mendes sembra decidere di ripiegarsi su sé stesso, raccontando gli anni Ottanta della sua adolescenza a partire dalla fascinazione per la sala buia e le ombre in movimento. Una sorta di operazione nostalgia che funziona (almeno in parte) grazie alla magnifica performance di Olivia Colman, strepitosamente brava come sempre, ma qui lasciata in gran parte da sola a reggere il film. E non è tanto un problema di attori (il giovane Micheal Ward se la cava in modo onorevole, così come il bravo Toby Jones nei panni dell’appassionato proiezionista) quanto di sceneggiatura. I personaggi e la loro interazione sono infatti scritti (dallo stesso Mendes) in modo schematico, un po’ artificiale, nel complesso ben poco convincente.
E se la prima parte del film si lascia seguire con sufficiente partecipazione, la seconda, man mano che la storia procede verso il finale, sembra perdere forza, come se l’autore stesso non fosse davvero convinto. Mendes sembra infatti proseguire quasi per inerzia, accatastando finali e annegando in mezzo a immagini scialbe anche la magnifica scena finale di Oltre il giardino, con Peter Sellers al suo ultimo ruolo che si allontana impavido verso il futuro, perché tanto “La vita è uno stato mentale”.
Empire of light, di Sam Mendes, con Olivia Colman, Micheal Ward, Colin Firth, Toby Jones, Tanya Moodie, Hannah Onslow, Crystal Clarke