Il friulano Alberto Fasulo ambienta nella sua terra la parabola di un umile uomo del Rinascimento che sfida i potenti, religiosi e non, mettendo a confronto il Dio della povertà e quello della ricchezza, lo sfarzo contestato della Chiesa e la misera condizione della gente del suo villaggio. Di cui in qualche modo si fa portavoce, essendo uno dei pochi che sa leggere e scrivere. Subirà fino al rischio della vita le persecuzioni dell’Inquisizione, pur di tenere alta una voce sincera. Un film poetico e antiretorico
Alberto Fasulo torna sul grande schermo con Menocchio, un film “storico” di nuovo genere, una sorta di scorcio epidermico su un mondo a ben vedere non poi così lontano dal nostro. Affascinato sin da giovanissimo dalla figura di Menocchio, personaggio atipico e complesso che si annida nell’immaginario del Friuli natale, Fasulo ha deciso di dargli un volto. Un volto molto personale, nel quale sembra specchiarsi alla ricerca di quella scintilla che ha trasformato un semplice mugnaio nel portavoce delle inquietudini di tutto un villaggio. Una voce che riesce a echeggiare fra le montagne malgrado il bavaglio inquisitorio che cerca di bloccarla. Una voce che è musica: stridente, malinconica e indecifrabile.
Splendore pasoliniano e imperfezione estetica di quest’opera si celano nell’utilizzo di un gruppo di non-attori, scelti solamente per la loro fisionomia, dopo un lungo casting del regista tra Friuli e Trentino. La cinepresa indaga imperterrita i volti e i corpi (spesso ripresi in piani ravvicinati e insistenti) dei suoi protagonisti, trasformandosi lei stessa in sguardo inquisitore. Un’inquisizione benevola, però, che cerca di sottolineare quello che la voce non osa esprimere. Da qui nasce la partecipazione calorosa dai neo-attori locali come fosse la natività di un presepe vivente, ma emerge soprattutto uno straordinario protagonista: Marcello Martini. Rughe d’espressione e segni del tempo ne fanno un volto che resta impresso nella memoria come un quadro senza età.
Menocchio/ Martin è un uomo apparentemente comune, un umile mugnaio di un villaggio perso fra le montagne friulane. Un uomo che avrebbe potuto tranquillamente perdersi nell’anonimato della storia. Ma non è come tutti gli altri, sa leggere e scrive, ma soprattutto riflettere. Menocchio è, come viene descritto nel film da una uno dei suoi detrattori, “una mente che può”. E questo, nel contesto teso e buio della chiesa cattolica romana della fine del XVI secolo, minacciata dall’avanzare della riforma protestante, non può essere tollerato. La condanna per quanti osino avventurarsi al di fuori dei dogmi della chiesa sarà così l’annientamento, l’estirpazione tanto dal regno terrestre quanto da quello celeste.
Accusato d’eresia, l’ostinato Menocchio non sembra voler ascoltare le suppliche di quanti gli chiedono di redimersi per salvarsi la vita; ma lui è testardo e sinceramente convinto del valore dell’uomo semplice, anche messo al pari del potente, persino del Papa. Si parla di «Dio della ricchezza e Dio della povertà», di un contestato sfarzo della Chiesa. Temi francescani già caldi almeno un secolo prima, per il clero, ma in quel periodo di tardo rinascimento, l’Italia del contado viveva ancora in un medioevo culturale. Menocchio è l’incarnazione stessa della natura, in tutta la sua semplicità e splendore.
Questo di Fasulo è un film grandioso nella sua semplicità, ipnotico e toccante. Il 42enne regista di Tir e Rumore bianco tiene sulla corda lo spettatore coi suoi magnifici primi piani e la fotografia curatissima, che in questo salto nel tempo regala pennellate di luce quasi caravaggesca squarciando il buio delle inquadrature, e con dialoghi scevri da lezioni o ricatti morali. Non filosofeggia, tantomeno trasforma il protagonista in un eroe, e nemmeno in un demone. Con naturalezza ci narra di tempi bui, e quando si riaccendono le luci ci lascia con l’amaro in bocca. E questa non è finzione.
Menocchio, di Alberto Fasulo, con Marcello Martini, Maurizio Fanin, Carlo Baldracchi, Nilla Patrizio, Emanuele Bertossi, Agnese Fior, Mirko Artuso, Roberta Potrich