Uno spettacolo straordinario in scena al Menotti
Non abbiamo bisogno di parole per sopravvivere, ne abbiamo bisogno per vivere.
Jón Kalman Stefánsson, scrittore islandese, basa un intero libro su questa frase e Familie Flöz in appena un’ora e mezza di spettacolo lo smentisce senza possibilità di appello.
In scena al Teatro Menotti fino a domenica ci attende una piccola compagnia tedesca, di Berlino, Familie Flöz, appena tre attori che hanno la capacità straordinaria di sembrarne quindici.
Lo spettacolo, Teatro Delusio, è incantevole, nel vero senso della parola, lascia incantati, ammaliati.
Si tratta di uno spettacolo dal meccanismo contorto ma nello stesso tempo lineare, pragmatico ma poetico, accusatore ma esaltatore.
Drammaturgicamente molto ricco, povero di parole, ma ricco di gestualità, il linguaggio del corpo fa da padrone, al suo servizio ci sono tre attori e innumerevoli maschere capaci di dare vita ai personaggi più disparati che compongono la struttura che sostiene lo spettacolo teatrale. Durante tutta la rappresentazione assistiamo a quello che succede dietro le quinte di un teatro durante uno spettacolo, in questo caso di lirica, ma che si può adattare a tutti i generi, quello che ci mostrano è la relazione esistente tra ciò che c’è davanti e ciò che c’è dietro, non è mai una questione di chi sta sopra e di chi sta sotto, di cosa è più importante e cosa lo è meno, è una questione che si svolge sullo stesso piano.
Quando si entra in sala lo spettacolo è già cominciato, ci sono tre tecnici sul palcoscenico che sistemano gli oggetti, gli spettatori sembrano non curarsi troppo di quello che succede in scena, a mano a mano che le luci cambiano, la sala si zittisce, per tutto lo spettacolo nessuno dirà più una parola e gli unici suoni verranno dal retro del palco e dalle risate del pubblico, e i tecnici si trasformano in attori.
La scena si presenta subito con un dubbio, da quale parte del teatro ci troviamo? Vediamo infatti il retro di quinte armate e non il davanti,a cui siamo certamente più abituati, tutto quello che succede di importante avviene dietro le quinte, in un continuo gioco di rapporti umani. Ritroviamo elementi che provengono dalla clownerie, dal linguaggio degli acrobati, del mimo e dal teatro di figura. Le maschere sono uno degli aspetti fondamentali dello spettacolo, tutte diverse ci delineano la natura dei personaggi, sui quali c’è uno studio di carattere largamente approfondito, con l’aiuto delle luci è sorprendente quanto riescano a cambiare espressione pur rimanendo immobili.
È un gioco molto ben equilibrato quello che viene proposto, non capiamo fino alla fine se sia davvero finito, perfino gli applausi e gli inchini li rivolgono al pubblico che sta al di là delle quinte, quello che non siamo noi e che non vediamo, quello che ha visto ciò che è successo davanti alle quinte.
Un teatro elegante in tutti i suoi aspetti, che usa la poesia come mezzo di espressione, ma non la poesia fatta di parole, ma quella visuale, delle immagini e del linguaggio del corpo, in questo momento non serve altro e la parola sarebbe di troppo.
Insieme ai tre attori all’inizio fa una breve visita uno spirito, che incarna il teatro, la poesia, lo stupore, un pupazzo con la faccia di cartapesta che viene animato dai tre tecnici, che tornerà nel corso dello spettacolo a ricordarci che le critiche ad un vecchio teatro classico, polveroso, alimentato da cliché sono ammesse, e si ripresenterà alla fine per salutarci e ricordarci che invece un teatro capace di lasciarci a bocca aperta è ancora possibile.
La parola Delusio potrebbe derivare del perfetto latino di deludo, che significa “ingannare”, è proprio un inganno quello a cui abbiamo assistito, gli attori si fingono tecnici e lo spettacolo si afferma nella sua esistenza smentendola, ponendosi dal punto di vista di chi lavora in silenzio prima, dopo e durante senza essere visto ma ne costituisce l’ossatura.
Un teatro nel teatro che sta in una stanza degli specchi dove ogni elemento riflette l’essenza del teatro auto-rappresentandosi.