Il celebre film di Fritz Lang rivisto agli Arcimboldi con le musiche originali eseguite dalla Filarmonica della Scala
Non mi aspettavo di rivedere, verso la fine di Metropolis, l’intera sequenza dell’affondamento di Titanic. C’è persino il cancello di divisione tra prima e terza classe, tra il mondo sotterraneo dei lavoratori e la città del potente dittatore Fredersen. Però manca Kate Winslet e soprattutto manca Celine Dion.
Eppure la Filarmonica della Scala può anche decidere di sbalzarci nella preistoria della settima arte, prima delle canzoni ultramelodiche e dei sussurri strappalacrime, per esempio nel passato avveniristico di Fritz Lang, come ha fatto agli Arcimboldi il 20 settembre.
Dunque Metropolis, che l’orchestra affronta tra un Elisir d’amore e un Barbablù di routine, per sondare la drammaturgia musicale di uno di quei film che quasi tutti ricordiamo solo a sprazzi, perché intravisto nelle settimane tra il liceo e l’università: quel periodo di transizione fatto di pigri pomeriggi in cui per decenza ci si impone almeno un paio d’ore di attività culturale.
Nonostante le infinite variazioni techno e rock concepite nei decenni – come quella di Moroder che alterna Freddy Mercury a Pat Benatar –, la partitura originale di Gottfried Huppertz non è invecchiata male, e vale la pena di sentirla dal vivo, soprattutto con l’attenta direzione di Frank Strobel, per la seconda volta a Milano dopo il ritrovamento delle parti mancanti del film a Buenos Aires nel 2008.
Huppertz aveva già fatto Die Niebelungen con Fritz Lang, dewagnerizzando una musica che sembrava non dewagnerizzabile, con un sobrio stile pre-espressionista, suggestivamente neoclassico. In Metropolis si ritrova invece una scrittura più massiccia, a volte liricissima, ma più spesso spigolosa e angosciante: sono pagine futuristiche che descrivono un’ingombrante tecnologia meccanica, fascinosa anche se decisamente poco profetica.
Ma che cos’è una colonna sonora quando non esiste il sonoro? Non musica di scena, d’atmosfera, ma nemmeno musica onomatopeica. Una partitura di Huppertz sfrutta l’impianto wagneriano dei motivi ricorrenti, etichettando personaggi e ambienti con temi diversi per poi riprenderli e usarli sempre più imprevedibilmente, in un divenire semantico che si intreccia alla trama del film.
Per esempio c’è il tema severo del padre del protagonista, freudianamente assurto a dittatore della città, destinato ad acquistare sempre di più il significato di repressione; poi il tema di Maria e quello del robot, con arpe e organo a definire la femminilità di entrambi – dolce quella di Maria, più inquietante quella del robot; il tema del panico di Maria nelle catacombe, inseguita dallo scienziato pazzo, che diventa in seguito il motivo del pericolo, per poi addolcirsi e unirsi a quello della riconciliazione durante il salvataggio dei bambini dall’inondazione.
Rispetto a Wagner l’impianto di Huppertz è più duttile, e i temi sono scattanti. Il furioso finale è travolgente nell’intricata reattività, con la marsigliese distorta che si erge sopra disperati ritmi di archi e ottoni: mai ascoltata tanta politica in musica, con l’eccezione di Verdi.
Nel pieno del nostro incantamento per la parola fa impressione ritrovarsi di fronte a una recitazione lontana da ogni verosimiglianza, barocca ed esagerata, e che racconta una storia con un linguaggio non verbale ma sinfonico, con la camera che indugia più che mai su sguardi e mani contorte. «Ma non era sufficiente per loro, oh no!, dovevano impadronirsi anche degli orecchi. Allora aprirono le loro bocche bestiali e vomitarono parole, parole, parole…». Povera Norma Desmond, trascinata in malo modo lungo il viale del tramonto, per colpa di un pubblico che non era più interessato ai suoi occhi.
Foto © Filarmonica della Scala – G. Hanninen