Simul stabunt, simul cadent? Potrebbe essere questa la sorte dei dioscuri scaligeri che ieri, ancora una volta insieme, hanno presentato la nuova stagione che inizierà il prossimo dicembre proprio con l’opera di Verdi parafrasata nel titolo. Sicuramente il contratto del sovrintendente è in scadenza. Sul direttore musicale, che nel frattempo continua a mietere successi (vedi la Messa da Requiem in San Marco), invece, circolano solo voci. Un bilancio e qualche considerazione. Autarchica
C’est fini. Abgeschlossen. Finita. Che cosa? La stagione di Dominique Meyer alla Scala, ma non solo quella. Nel 2025, anno in cui anche la direzione musicale di Riccardo Chailly è data in scadenza (termine orrendo, da confezione avariata), si conclude la lunga scia dei sovrintendenti stranieri nel primo teatro d’Italia. Finalmente, sospirano i sovranisti. Ma non sanno di che parlano.
Nel 2005 l’unica Fondazione di diritto privato funzionante e autosufficiente, sceglieva Stéphane Lissner per rompere lo storico, tradizionale (e politico) schema della triade Sovrintendente-direttore artistico-direttore musicale. Le due prime funzioni si concentravano in una sola persona per la prima volta nella storia recente. Lissner tenne quella posizione per dieci anni. Nel 2015 arrivò Alexander Pereira, austriaco, che nel 2019 lasciò l’identico ruolo a Dominique Meyer, alsaziano; provenienza: Staatsoper di Vienna.
Senza rancore
Meyer ha illustrato ieri la sua ultima stagione alla Scala (2024-2025), serenamente impegnato a tenere lontano nostalgia e rammarico per una riconferma che, insieme a Riccardo Chailly, avrebbe molto desiderato, e perfino le maestranze invocavano. Non importa: si è detto un uomo felice e appagato. «Ho diretto il Teatro degli Champs Élysées, l’Opera di Losanna, l’Opéra di Parigi, la Staastoper di Vienna, ho avuto la fortuna di conoscere e lavorare con i più grandi direttori, artisti e cantanti, dunque non ho il diritto di lamentarmi». Insomma, senza rancore.
Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala
E comunque no, nessuna deroga. Il Ministero non poteva aspettare che la Scala decidesse di sé e da sé: doveva scattare subito il programmato gioco delle caselle sulla scacchiera dei teatri d’opera per sistemare i prescelti. Alla Scala arriverà Fortunato Ortombina, già per anni coordinatore artistico alla Scala, anche con Lissner, poi alla Fenice di Venezia, prima come direttore artistico e poi anche come sovrintendente. Dunque, scelta eccellente. Non c’è che dire. Italocentrica ma eccellente.
C’è qualcosa da imputare a questi vent’anni di stranieri nei teatri della patria? Considerate le dovute differenze e inclinazioni, niente. Il repertorio italiano non è mai stato messo in sofferenza: i titoli di casa sono sempre stati in maggioranza nei cartelloni. Semmai sono diventati più internazionali le compagnie di canto, che non è un male. In compenso, da Lissner in poi, si è ampliato il repertorio, si sono visti e sentiti cicli Wagner, Janacek e Britten (ma anche Monteverdi), si è ascoltata qualche opera in più di Handel e di qualche autore eccentrico (come Die tote Stadt di Korngold). E per fortuna.
Il “difetto” rimproverato a tutti e tre è anche il motivo del loro successo sul piano economico-amministrativo: da Lissner fino a Meyer, la Scala si è definitivamente assestata su un aureo equilibrio nel quale un terzo del bilancio è di biglietteria, un terzo di sovvenzioni pubbliche e un terzo di contributi privati. Per la verità l’ultima voce si è via via incrementata fino a toccare i 44 milioni di euro, su circa 130 di budget annuale. Concentrare in una sola figura le scelte artistiche e la gestione economica ha importato una formula logica e semplificatrice che in Europa è la norma. Se ne sono accorti tutti anche in Italia, tanto da tentare imitazioni un po’ ovunque, da Venezia a Palermo. Adesso, però, marcia indietro. Anche perché, in Italia, una “scuola” di direttori-sovrintendenti all’europea non c’è.
Al momento, la Scala ha più del 60% di risorse proprie. I contributi pubblici sono in minoranza, ma la politica si sente sempre padrona, indipendentemente da quel che dà. Il refrain è lo stesso: “tanto la Scala se la caverà sempre”. Infatti, raccogliere 44 milioni di euro l’anno dai privati e riempire la sala a prezzi non scontati, è un gioco da ragazzi. Perciò, tante grazie a Dominique Meyer, anche ieri in conferenza stampa. Ma la porta è quella.
E la musica?
Anche la figura che nel teatro d’opera dovrebbe stare in cima ai pensieri di tutti, quella del direttore musicale, Riccardo Chailly, non è trattata coi guanti. Qualcuno ha già detto che dal 2025 a subentrargli sarà Daniele Gatti, musicista splendido, ma quel qualcuno non è il sovrintendente (non ancora insediato) né il Consiglio di amministrazione, che nella logica italiana del triumvirato e nello statuto della Fondazione è l’unico organo investito della scelta (su proposta del sovrintendente). “Sul futuro, si procede alla giornata”, si lascia scappare Chailly. I giochi dunque non sono fatti? Chissà. C’est l’Italie.
Come risposta a sgarbi e vaghezze, in vista di una stagione nella quale lo si ascolterà all’inaugurazione con La forza del destino, (dicembre) e in maggio in una promettentissima trilogia Kurt Weill con I Sette peccati capitali, Mahagonny Songspiel e Happy End, Riccardo Chailly ha signorilmente sfoderato una sequenza di appuntamenti da signor direttore musicale: dopo La rondine di Puccini, dopo la Nona di Beethoven e prima del concerto in piazza Duomo il 9 giugno, Chailly ha esibito due gioielli, l’uno nel filone italiano, l’altro nel sinfonico europeo.
Giovedì 23 maggio, per i 150 anni dalla prima esecuzione, nella chiesa di San Marco ha fatto risuonare una Messa da Requiem che solo con strumenti fedeli a Verdi come l’Orchestra e soprattutto il Coro della Scala si può trasformare in qualcosa di simile a una santificazione. Chailly ha scelto anche le voci giuste per far ora divampare ora raccogliere in meditazione il testo sacro del laico Verdi: Marina Rebeka (protagonista della Norma di giugno-luglio 2025), Alexander Vinogradov, e in particolare Daniela Barcellona e Francesco Meli esemplari nel far risplendere la parola verdiana.
Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala
Meno di sette giorni dopo, Riccardo Chailly si è anche superato in un programma sinfonico (ancora stasera, mercoledì 29, e domani, 30 maggio), congegnato e diretto con sensibilità assolutamente straordinaria, capace di avvicinare alla Seconda Scuola di Vienna qualunque ascoltatore. Verklärte Nacht di Schönberg, nata come sestetto nel 1899, apertasi al grande organico nel 1919 (poi 1943), è un affresco meraviglioso che un paradosso nemmeno tanto estremo potrebbe suggerire scritto dal fratello giovane e spregiudicato di Brahms. Verklärte Nacht “arriva” con forza irresistibile se l’orchestra, come quella della Scala, vi si immerge a pieni archi come corpo unico.
Non scoraggia nessun pubblico minimamente avveduto nemmeno la grande Passacaglia Op.7 di Anton Webern, ancora molto legata alla storia, prima del volo verso i prodromi della Nuova Musica del Novecento. Esecuzione d’eccellenza anche questa. Ma quando nell’ultima parte del programma si affacciano i Tre frammenti dal Wozzeck di Berg, sentendo profumo di teatro, Chailly e l’orchestra si saldano in una dimensione espressiva assolutamente fuori del comune per ogni standard. Un vertice della stagione sinfonica.
Consigli per gli acquisti
Fra i 14 titoli d’opera del 2024-2025, per che cosa ci si può già agitare? Sicuramente per il Wagner diretto da Christian Thielemann (Die Walküre in febbraio, Siegfried in giugno), per Evgenij Onegin di Čaikovskij nel nuovo spettacolo di Mario Martone (febbraio-marzo), per la novità contemporanea composta da Francesco Filidei e regia di Damiano Michieletto (Il nome della rosa, aprile-maggio), per il triplo Weill diretto da Chailly in maggio), per la Norma di Bellini che vede il buon ritorno sul podio di Fabio Luisi e soprattutto per Così fan tutte di Mozart che Robert Carsen si è lasciato convincere a mettere in scena per la prima volta (novembre). Stagione sinfonica, concerti straordinari, orchestre ospiti: tutto da cinque stelle. Il Balletto, in nove serate bene in equilibrio fra repertorio e modernità ha buoni motivi per appagare ogni tipo di pubblico, visto anche il livello raggiunto dalla Compagnia. Ma anche il direttore del Ballo, Manuel Legris, se ne andrà. Ovviamente.
Foto di copertina: @ Silvia Lelli