Cronache dal miart, la ricca fiera milanese di arte contemporanea che è andata in scena tra il 5 e il 7 aprile: pensieri, visioni, bilanci, per provare a orientarsi nell’arte di oggi.
“Abbi cara ogni cosa”. Con questo verso dal poema Hold Everything Dear di Gareth Evans, il bravo direttore di miart Alessandro Rabottini ha presentato la fiera di arte moderna e contemporanea di Milano che si è svolta nei giorni scorsi. Non per dare un titolo né tantomeno un tema alla fiera, bensì per sottolineare l’attenzione necessaria per capire l’arte dei tempi caotici in cui viviamo, perché una fiera non è una mostra, ma è l’occasione perfetta per praticare l’osservazione del tempo presente nella sua complessità.
Gallerie celeberrime e realtà locali, star internazionali dell’arte e esordienti, progetti curatoriali, conversazioni di alto livello, premi, acquisizioni, editoria, addetti ai lavori da tutto il mondo e poi una miriade di mostre, la maggior parte delle quali ancora in corso, che invadono la città grazie alle istituzioni pubbliche e private e agli spazi no-profit che danno vita alla Milano Art Week.
Mancare da Milano in questi giorni sarebbe stato più o meno come mancare da Venezia nei giorni di apertura della Biennale: anche qui vanno resi i doverosi tributi, spettegolate le assenze, aggiornate le liste, varcati gli ingressi più blindati e revisionati i look alla moda, oltre ad assecondare il pretesto che rende possibile il tutto: guardare le mostre e, soprattutto, la fiera.
Quali sono dunque le opere a cui dedicare la nostra attenzione per diventare fruitori più consapevoli? Inevitabilmente tutto e il contrario di tutto. Il melting pot, termine sociologico che letteralmente significa pentolone ed evidenzia la commistione di elementi eterogenei, è ormai parte integrante del mondo dell’arte. Non solo dal punto di vista etno-antropologico e del confronto generazionale, quanto nella commistione ormai frullata di generi, intenzioni, concettualismi e stili che nell’arte più contemporanea si accavallano l’uno sull’altro.
Se post-postmodernamente reciclo e riutilizzo e cito e alludo, allora l’oggetto perde anche quel rimasuglio di aura che, abbandonata l’opera d’arte pre-Benjamin, pervadeva ormai da un secolo qualunque opera post-readymade. E allora un rifiuto, chiuso il cerchio, torna ad essere immondizia, un pezzo di cemento un calcinaccio e un ritaglio di giornale carta straccia. E il baratro si apre, per contorsione circense, anche per i materiali nobili che scimmiottano accademicamente in marmo oggetti poveri come cassette della frutta o fondono nel bronzo assemblaggi di giocattoli e ossa umane degni della più ostica neuropsichiatria infantile.
Ci salvano i grandi vecchi come Paul McCarthy, capace di rendere sublime il marcio più olezzante e le sevizie da serial killer, e lo straordinario David Hockney con le sue incredibili pitture digitali, o perle come l’incontro tra Masbedo e Tiepolo a Palazzo Dugnani.
Ma più che alla singola opera bisogna guardare al panorama nel suo insieme, e quello che oggi si leva dal calderone di cui sopra somiglia più a un indistinto rumore di fondo che a un cambio di paradigma. Spirito del tempo? Si, ma nel senso di caduta dell’impero, di capitolo finale di una storia in buona parte già raccontata e che non si decide a finire. L’arte occidentale è stanca e quella “esotica” – concetto che ancora sopravvive tra le pieghe di quel che resta del politically correct – continua a scimmiottarla, magari mischiando a fini di denuncia la juta di Burri al gigantismo di Christo, massacrando con un esagerato abbassamento di soglia linguistica ogni buona intenzione.
Questo è il clima che, sotto la patina dell’evento, ho respirato a miart e in giro per la città, tra una mega installazione all’aperto e una micro tartina da Cracco. Senza nessuna colpa, sia ben chiaro, né della Fiera né della città. Anzi, lo spirito del Fuori Salone e della FashionWeek si ripresenta, com’è giusto che sia, anche per l’arte, ricordando al resto del Paese come Milano sia l’unica città veramente europea in Italia oggi. Allora dove sta il problema? Nel mondo dell’arte, nell’Arte del nostro tempo o, quantomeno, in questa ultima coda dell’Arte del tempo che è stato e che presto non sarà più. Ma non basta.
I tempi cambiano, gli equilibri sociali, economici e bellici cambiano di continuo, la politica arranca e l’arte, lo diceva Pierre Bourdieu, è un campo periferico che dipende da quelli centrali e di questi è specchio, magari parte integrante, a tratti autonoma ma comunque autoreferenziale e mai centrale, mai fonte di influenza per il centro vero. Per questo, probabilmente, la cultura non può ancora fare a meno di fiere, biennali e fuori salone/fiera/passerella. Perché il melting pot è tutt’altro che finito, e l’unica possibilità è ancora e soltanto la fenomenologia, “lo studio e la classificazione dei fenomeni quali si manifestano all’esperienza nel tempo e nello spazio”. Nella speranza di capirci qualcosa il prima possibile.