Tutto comincia quando Michael Dobbs, politico inglese dell’epoca Thatcher, decide di far fare carriera al suo personaggio di carta Francis Ewan Urquhart
Pensavo che le belle ragazze rivolgessero la parola a un perfetto sconosciuto incontrato sull’autobus solo nei film. Pensavo, finché Frank Underwood non ci ha messo lo zampino.
Alcune mattine fa ho preso l’autobus insieme a un’amica per raggiungere il centro di Milano. Come la sfortunata ben sa, le ore immediatamente successive al risveglio sono quelle in cui parlo di più. Così nel mio fiume di chiacchiere siamo arrivati a parlare della terza stagione di House of Cards, uscita da poco più di un mese su Netflix. Dopo le prime battute ho incrociato lo sguardo di una ragazza che mi fissava intensamente dal suo sedile poco distante. Il mio lato più narcisista ha ringraziato compiaciuto e, insieme alla mia amica, sono tornato a concentrarmi su chi potrebbe silurare Frank nel corso della nuova stagione.
Il “toto- Underwood” sarebbe potuto proseguire a lungo con estrema soddisfazione di entrambi, se non fosse stato per il ruggito che ha risvegliato gli assonnati passeggeri dell’autobus. Lo sguardo intenso di pochi istanti prima si era trasformato in puro odio, mentre la ragazza mi intimava con tutta l’eleganza consentita dalle otto di mattina di tapparmi la bocca. Per uno spoiler, una potenziale storia d’amore è morta ancora prima di vedere la luce. Tante grazie, Frank!
Ma la verità è che la colpa è solo e soltanto mia. Oggi è impossibile trovare qualcuno che non lo abbia sentito nominare almeno una volta: complici i fan della serie che sguazzano nel lato oscuro della politica di Washington da tre stagioni. Tutti conoscono – o si illudono di conoscere – Frank Underwood.
Ma Frank, o Francis come lo chiama la moglie Claire, ha un segreto di cui pochi sono a conoscenza. Durante la sigla di House of Cards, un frame di alcuni secondi lo rivela: “Basato sui romanzi di Michael Dobbs“. Prima di conquistare la Casa Bianca, Francis ha già lasciato il segno al numero dieci di Downing Street. A farcelo arrivare, prima ancora che gli elettori britannici, è stato Sir. Michael Dobbs, politico inglese che tra i vari incarichi ha ricoperto quello di capo dello staff del partito conservatore durante l’ultimo governo di Margaret Thatcher.
Proprio sotto la stella della Lady di Ferro, la carriera politica di Francis Ewan Urquhart fa il suo salto di qualità, quando viene nominato, guarda caso, capo dello staff del partito conservatore. Da quel momento, mettendo in campo tutto il suo arsenale di trucchi, influenze e colpi bassi si farà strada fino al vertice del partito fino a ricoprire la carica di primo ministro. Se Underwood e Urquhart si trovassero a lottare negli stessi corridoi si troverebbero in diversi schieramenti: il primo è un democratico, il secondo un tipico esponente della destra inglese sciovinista e antieuropeista. L’unica cosa che condividono, oltre al nome, è l’amore per il potere, vissuto come unico fine della propria esistenza.
Nel terzo capitolo di House of Cards, intitolato Atto finale, Francis è all’apice della sua parabola politica. Dopo tre mandati consecutivi e più di dieci anni in carica come primo ministro, in molti iniziano a vedere Urquhart come un monarca di fatto, circondato da una nutrita corte di ruffiani e di sue creature che sognano di defenestrarlo, ma non hanno né il coraggio né le possibilità per mettere in atto i loro disegni. Una situazione idilliaca per qualunque politico, tanto che Francis inizia a distrarsi dalle quotidiane schermaglie per concentrarsi sul suo lascito e su quello che sui libri di storia verrà scritto di lui. Solo due mesi lo separano dal diventare il primo ministro più longevo del ventesimo secolo, battendo anche il precedente record di Margaret Thatcher.
Il raggiungimento della meta sembra per tutti una formalità, ma anche tra i più sottomessi dei cortigiani può nascondersi la scintilla della ribellione. Anche gli uomini più potenti del mondo dovrebbero ricordarsi che siamo tutti ostaggi della casualità degli eventi. Non importa quanto raffinati siano i piani che muovono le nostre decisioni.
Una sola decisione avventata porterà Francis di nuovo al centro dell’arena politica. Solo contro i passati alleati che lo hanno assecondato per calcolo o paura, solo contro la stampa che spera in un’impennata delle vendite dopo la sua caduta. Si considera come il solitario protagonista di un dramma teatrale, un moderno Giulio Cesare, che lo stesso Urquhart confida essere la tragedia di Shakespeare che preferisce in assoluto.
Solo anche contro il lettore. Francis non è Frank. Underwood è un bastardo, ma quel modo sornione che ha Kevin Spacey di interpellare lo spettatore, quello sguardo che sembra suggerire “te lo avevo detto” hanno il potere malefico di attirargli le simpatie del pubblico. La scelta di Dobbs di usare nella narrazione la terza persona porta il lettore a provare un’istintiva antipatia per Urquhart. Pagina dopo pagina vediamo crescere la sua tracotanza, la sua convinzione di essere una creatura unica, una vetta irraggiungibile di acume e istinto politico, un maestro che non ha nessun desiderio di avere dei discepoli. Francis riesce a concentrare in sé tutti i difetti che il pregiudizio attribuisce ai britannici, oltre a tutti quelli attribuiti alla classe politica.
In tre libri non si riesce a provare una sola volta complicità nei suoi confronti. Francis non cerca alleati, solo gregari abbastanza intelligenti da tornare utili ai suoi scopi, ma non abbastanza da poter insidiare la sua posizione. Il lettore si trova a scandire insieme ai manifestanti di fronte a Downing Strett il motto “F(uck) U Urquhart”, aspettando quel finale promesso dall’autore nel titolo.
Immagine: House of Cards – Capitol di teokon
House of cards 3. Atto finale di Michael Dobbs (Fazi editore, 2015, 528 pp., 17,50 euro)