Bach, Mozart, Grieg. Un programma insolito quello affrontato, con successo, dal pianista al Conservatorio
Nella Montagna incantata Thomas Mann apparecchia un tavolo di «russi buoni» e uno di «russi cattivi»: per diversi motivi metterei Mikhail Pletnev nel secondo, dove sono decisamente più simpatici.
Un po’ anche per la lunghezza del programma suonato ieri sera al Conservatorio, per la stagione del Quartetto: 110 minuti più intervallo tra disciplina bachiana, il lirismo di Grieg e ben tre adamantine sonate di Mozart.
Il pianista ha escluso quel repertorio turbolento che l’ha reso tra i più grandi: niente russi, e non un Beethoven o un Chopin, nemmeno come bis – invece lisztiano. Solo sonorità pure: il rigore di un preludio e fuga, l’equilibrio mozartiano, e in mezzo i frammenti scandinavi di Grieg, incastonati con poco criterio nella sonata op. 7, espansi con variazioni traboccanti nella Ballata op. 24.
Un programma che – ci ha detto Pletnev – ha come difficoltà maggiore la «perfezione» richiesta da questo repertorio, in particolare da Mozart. Forse intende una perfezione crescente di brano in brano. Bach è per organo, ma nella densissima trascrizione di Liszt; Grieg tenta la sonata, ma si perde tra innumerevoli e insondabili metamorfosi; solo Mozart non è ambiguo, ma limpido.
«Prima di capire se una combinazione di brani funziona, devo suonarla diverse volte», dice Pletnev, aggiungendo laconicamente che questa è stata la prima esecuzione: dunque solo tra qualche tempo potremo chiedergli se, a suo avviso, la combinazione ha funzionato.
Solo che tale percorso di ascesa non mi pare verosimile. Ecco perché metterei Pletnev, bonariamente, tra i «russi cattivi». Quando nella ripresa ha attaccato con la K 311 di Mozart, in re maggiore, le acciaccature sembravano proprio delle pernacchie. Un cambio di atmosfera, geniale ma insostenibile, come di un tipaccio che si traveste all’improvviso da studente diligente. Perché solo dieci minuti prima, sul finale della Ballata di Grieg, ha scagliato il braccio in fondo alla tastiera per un’appoggiatura da mezzo minuto, con un suono doloroso e un piglio insofferente.
E invece di seguire questa ondata con Rachmaninov o Prokofiev, Pletnev ha dissimulato un contegno, svuotando volontariamente il volume, ad esempio nelle ottave della sonata in do minore K 457, per poi concludere la sonata in fa maggiore quasi come una fantasia. Un’andatura mozartiana, la sua, che ha pochissimo di apollineo e mi ricorda piuttosto il finale di Arancia meccanica, con Malcolm McDowell fintamente rieducato.
Pletnev ha spesso dichiarato di suonare solamente quello che capisce, quello a cui vuole affidare la travagliata morbidezza del suo suono. Il resto lo taglia per lasciarlo ad altri, a lui non interessa. Con aria scocciata, il pianista si avvicina al pianoforte e finge di montare un programma sulla perfezione della forma, quando l’unica cosa che gli interessa – e che ci interessa – è al contrario l’irregolarità che si sfalda, la sensualità del suo suono alla deriva.