A due mesi dall’apertura, viaggio in quel di Expo. Per scoprire giornalisti contenti e visitatori defatigati, là dove Milano sembra lontanissima…
Cento di questi mesi! No, cento no. Sei bastano e avanzano: come si dice, il gioco è bello quando è breve. Ve lo assicura una che è E.E., “Expo-entusiasta”, felice di lavorare nel caldo del Decumano, piuttosto che in quello del centro di Milano, più inquinato, forse non più caotico, sicuramente meno colorato.
In questi primi due mesi ho visitato spesso il sito di Rho Fiera e mi ci sono persino affezionata, notandone ogni giorno i piccoli cambiamenti. Dal primo maggio, in cui lungo il Decumano non si trovava quasi nulla, se non le pozzanghere della pioggia che filtrava dalle coperture, si è passati a un tripudio di panche e divanetti firmati – per quanto ci sia chi sceglie di non posare le terga in mezzo alla folla sudata e preferisce piuttosto portarsi la sedia da casa. Tra una seduta e l’altra le installazioni del celeberrimo scenografo Dante Ferretti, che non ho ancora capito se mi piacciono o no – sicuramente, quella a tema “porci e macelleria” non è la mia preferita, comunque fanno arredamento.
I volontari, che durante il primo mese distribuivano soltanto mappe e informazioni, negli ultimi giorni di caldo da record sono passati a distribuire ventagli – uno mi ha confessato che erano un modo per pubblicizzare la settimana di Women for Expo, «per quanto nessuno se ne sia accorto, il primo pensiero era di potersi sventolare».
I padiglioni ritardatari hanno inaugurato, si sono festeggiate un bel po’ di giornate nazionali, da quella del Kazakistan a quella del Rwanda. Si sono avvicendate le visite dei capi di Stato: Renzi, per accoglierli, è diventato frequentatore abituale di Expo. Tutto questo per la “felicità” di fotografi e giornalisti, costretti a inseguire i suoi spostamenti in corse disperate lungo le migliaia di chilometri – almeno secondo percezione soggettiva – del Decumano. Maratone a parte, che comunque fanno bene alla salute, il bello di lavorare in Expo è che ci si sente in un altro mondo, Milano sembra lontanissima, chi lavora nei padiglioni è particolarmente gentile – ne riparliamo tra un altro paio di mesi – e la solidarietà tra colleghi giornalisti si crea come succederebbe in un villaggio vacanze dove si subisce, tutti insieme, le attività organizzate dall’animazione.
Forse, guardandosi intorno, la maggior fatica a sopravvivere tra i padiglioni non la fa chi ci lavora, ma chi li visita da turista: sarà l’ansia di vedere più cose possibile, sarà il caldo che prosciuga le membra e le forze, ma dopo qualche ora di avanti e indietro si può osservare la moria dei visitatori. Qualcuno sfrutta le installazioni dei Paesi – la piscina con scultura kitsch della Repubblica Ceca ha un discreto successo – qualcuno collassa nei prati o nella prima seduta libera che trova, meglio se all’ombra, a meno di non voler rinforzare l’abbronzatura. Qualcuno sembra chiedersi: «Che cavolo ci faccio qui?», qualcuno probabilmente, quando si sveglierà, si chiederà «dove sono?».
Ho raccolto un gran numero di vittime dell’effetto Expo, qui ne trovate alcune.