Il festival di contemporanea ha già regalato ai suoi appassionati tanti momenti di musica sorprendente e innovativa. Ma c’è ancora qualche perla da scoprire. Basta scorrere il programma
Immaginatevi immersi in un mare sintetico, avvolti in fili colorati di alghe elettroniche, persi nelle onde di suoni liquidi. Se eravate lì, venerdì o sabato scorsi, nella sala del Meet Digital Cultural Center (già Spazio Oberdan), potevate provarlo sulla pelle. Au gré du suffle le son s’envole – titolo evocativo di una performance audiovisiva creata da Bernard Parmegiani nel 2006 ampliando un’idea del 1972, ricreata dal vivo da Andrew Quinn e Massimo Colombo – aveva la qualità per generare quel déplacement dal normale ordine della vita che il postmoderno ci ha abituato a guardare con sospetto, come un’ingenuità, ma cui tutte le esperienze visive e musicali in fondo ci invitano.
Au gré du suffle seguiva i simmetrici venti minuti di Pour en finir avec le pouvoir d’Orphée II, brano del 1972 ma davvero non vecchio, in cui Parmegiani (1927-2013) apriva affondi in corridoi grigi, mossi da serpenti di luce destinati a polverizzarsi in vibrazioni visive a acustiche. Insieme, i due pezzi ricreati nella “sala immersiva” del Meet Digital Center, erano l’appuntamento numero nove di Milano Musica, festival che quest’anno osa più di sempre.
Il tempo che ci separa da Parmegiani e dall’ideazione di quei pezzi, considerando la velocità dell’elettronica, potevano far temere un videoascolto di esperienza datata. Non è così.
Parmegiani ha imparato da Yannis Xenakis ma soprattutto da Pierre Schaeffer, maestro di concretezze e ben dirette forme di comunicazione. La vena astratta e antiretorica ha conservato all’immaginazione di Parmegiani un’attualità che si lega con naturalezza alle evoluzioni dal 3D. Ma, soprattutto, quel che “passa” è generato dal carattere della dimensione sonora, mai veramente secondaria.
Per un festival di musica contemporanea che ha la Scala come punto di riferimento, che gira fra Auditorium, Conservatorio, Elfo Puccini, Centro San Fedele, Santeria, Meet Digital Center, Palazzo Reale e Chiesa di San Marco, l’HangarBicocca è stata la conquista “altra” più importante e decisiva. E all’HangarBicocca si è replicata una sintesi spazio-musica che ogni volta ci si chiede come possa avvenire. Quella di martedì 24 maggio era forse la proposta più rischiosa in assoluto: riempire con due soli strumenti l’immensità dell’ex Pirelli scrutata dai Sette Palazzi Celesti di Kiefer (con corredo di “quadri” che in questi giorni vanno d’accordo perfino con il Palazzo Ducale di Venezia). Quasi provocatoria la combinazione: voce di soprano (Juliet Fraser) e contrabbasso (Florentin Ginot). Azzardo che ha trovato soluzione elettronica in due pezzi del 2020, entrambi in prima assoluta: All Is Ceiled di Martin Smolka (classe 1959) ed EUPHORIAOFFURIES di Anna Zaradny (Stettino, 1977). Due set di dimensioni simmetriche (30 minuti), due modi opposti per affrontare lo spazio.
In All is Ceiled, Smolka ha compresso emissioni di voce e suoni fissi del contrabbasso con tocco minimalista e sonorità trattenute. Ancora una volta la materia letteraria – Thoreau e Nuovo Testamento – era quasi annullata dall’estrazione di parole, dittonghi, vocali, consonanti; Juliet Fraser impegnata a diversificare l’acuta fissità di suoni senza vibrato; Florentin Ginot a contrappesare con garbo la voce femminile sullo strumento più profondo.
All’opposto, Anna Zaradny governava via computer e circuiti elettronici vocalismi più spinti e note anche di arco “lungo”, per dilatarli in un crescendo che sfidava lo spazio fisico con sfrontatezza.
In avvìo del concerto delle diciotto, pioggia e grandine non sono riusciti a turbare la concentrazione dei musicisti e l’attenzione del pubblico. Forse le hanno anche arricchite. Non è cosa nuova. L’Hangar ha sempre ragione.
Lunedì, alla Scala, il Quatuor Diotima, cavaliere elettrico del repertorio contemporaneo, al Quartetto n.16 op.135 di Beethoven (un dovere in tale “location”), agganciava due proposte di richiamo: il quartetto per archi Unbreathed di Rebecca Saunders (1967) e il quintetto con clarinetto Alchymia di Thomas Adès (1971). Nuova divaricazione estrema.
Unbreathed (2017) è una celebrazione del glissando in due parti: una prima veloce e nervosa, in cui i violini, la viola e il violoncello s’inseguono freneticamente; una seconda rarefatta, in cui molti rallentando e pause annunciano una fine che non viene e coglie di sorpresa. Lingua strettamente atonale e ben nota.
Alchymia (2021) è l’esatto contrario. Adès è uno spirito libero che non ha problemi a lasciare vie maestre e secondarie. Il clarinetto (Mark Simpson) emana una quiete, una distensione, un’aura che simula con incredibile abilità un melodizzare facile ad essere colto come verità assoluta. In quattro movimenti, due lenti e due poco più svelti, gli archi e il solista dialogano ai confini della tonalità con finezza strumentale quasi diafana. Un capolavoro. Perché ci interessava ascoltare questo pezzo anch’esso in prima esecuzione italiana? Perché di Thomas Adès la Scala metterà in scena in novembre un’opera che è già stata applaudita e celebrata: The Tempest, da Shakespeare, regia di Lepage, per di più ambientata in una esatta replica, scenicamente parlando, della Scala. Alchymia ne era una rassicurante anticipazione.
Ieri, all’ Elfo Puccini, Milano Musica si è spinto dentro i confini del teatro con Eurydice di Dmitri Kourliandski (1979), opera per voce ed elettronica. Il mito riscritto in “esperienza noir” per un soprano (Jean Crousad, Euridice), un danzatore (Dominique Mercy, Orfeo), un pianoforte (Bianca Chillemi), regia di Antoine Gindt.
Giovedì 9 giugno altro gesto e altra azione in Il teatro dell’ironia: La donna seduta di Copi, cinque “soliloqui” in prima assoluta che sono il completamento del workshop di ricerca cantante/attore per studenti di composizione del Conservatorio, da un’idea Gabriele Manca e Laura Catrani, con l’Azione Improvvisa Ensemble.
L’ 11 giugno Milano Musica 2022 conclude in San Marco con un connubio antico/contemporaneo: Tenebrae responsoria di Tomàs Luis de Victoria (1548-1611) e De Tinieblas di Stefano Gervasoni (1961) per coro misto ed elettronica sulle Tres Lecciones de Tinieblas di José Angel Valente.
Non sappiamo se dalla prossima edizione, numero 32, Milano Musica tornerà alla formula della monografia su un autore con attorno affondi in direzioni diverse. Quest’anno, che l’attorno era al centro, la missione della varietà e della sorpresa era assolta. Pensiamoci.
In copertina: la performance audiovisiva di Bernard Parmegiani ricreata nella “sala immersiva” del Meet Digital Center (foto Hanninen)