Quarant’anni di Milo De Angelis

In Letteratura

Quarant’anni fa usciva “Somiglianze” di Milo De Angelis: visionario, impegnato a catturare la tragicità dell’esistenza, contro la quale l’unico antidoto sembra essere l’amore della parola.

Milo De Angelis è un autore oscuro, un poeta contemporaneo i cui versi danno il labirinto e il filo del loro significato, ma non la pianta. Quando ha esordito, esattamente quarantanni fa, con il suo Somiglianze (1976), Maurizio Cucchi l’ha definito l’Arthur Rimbaud milanese: visionario, decadente, impegnato a catturare la tragicità dell’esistenza, contro la quale l’unico antidoto sembra essere l’amore della parola.

La poesia, per De Angelis, è soprattutto una questione di fascino. È qualcosa che gli nasce in bocca e nelle orecchie, quando piccolo poeta elementare già si soffermava sulla cadenza del maestro, sugli spazi pieni di significato tra sillaba e sillaba. Sembra essere un istinto naturale, quello del poeta che risponde alla fascinazione dando alla parola una forma, dice De Angelis. Si da il caso che la sua, di forma, esordisca personale, aggrumata e sintetica, fatta di voci poetiche lente e inconsapevoli per il suo autore.

Se la consapevolezza giunge, giunge in ritardo insieme alle osservazioni del lettore; al poeta resta l’esperienza vorticosa della poesia, ragione per cui nei primi testi del De Angelis non ci sono grandi sistematicità o progetto, ma gioco di varianti, verticalità, genialità. Poi la svolta negli anni ’80, insieme all’età adulta: la poesia di De Angelis si fa più prospettica e studiata, più coerente e precisa, ma forse meno geniale.
Rimane il segno distintivo di un significato nascosto e coagulato. «Perdo il filo del discorso quando racconto o scrivo prosa» dichiara lo scorso nove marzo all’università di Friburgo «Ne osservo troppo a lungo i dettagli e mi perdo». L’autore non assume mai una forma ordinata o distesa, quasi narrativa, in nessuna delle sue raccolte. Unica eccezione è La corsa dei mantelli (2011), una serie di quadretti lirico narrativi con al centro la figura di Daina, selvaggia ed eroica.

De Angelis lascia intendere di vivere la narrazione come una sfida che desidera accogliere o in un’accezione fluida e con una base poetica o solo su un terreno amico, quello aristocratico, severo e imprevedibile dell’adolescenza, la sua grande passione tematica. Daina incarna tutto ciò, e così ogni verso che parla di ricerca personale, un altro dei temi ricorrenti in tutta la produzione di De Angelis. Ricerca di un centro che spesso significa padre, per un uomo che non ha mai avuto un rapporto autentico con il proprio, o maestro. Di maestri, di quelli De Angelis è stato ricco, ci confessa: Angelo Maria di Pellino da cui ha ereditato l’amore per Marina Ivanovna Cvetaeva; Mario Luzi maestro di letteratura ma non di vita, l’uomo che ha mostrato al mondo come il dialogo si inserisca perfettamente nella poesia; Giorgio Colli, con il quale ha condiviso lunghe chiacchierate su Nietzsche. E sullo sfondo Lacan, che De Angelis si rifiuta di chiamare maestro, ma definisce insegnante dalla stimabile architettura tedesca unita a un formidabile ésprit de finesse francese. Sapere quali sono le radici ci dà forse l’illusione di capire meglio come e perché fiorisce la pianta.

L’ultima raccolta, Incontri e agguati (2015) conferma quella progettazione già avviata da De Angelis negli anni ottanta, ripresentandoci i temi della morte, dell’addio, del ricordo e della vita eroica. L’io lirico si fa sentire sempre vigoroso e potente, traccia una linea di pensiero che sospende più volte per venire a patti con le mille implicazioni interiori dell’esperienza vissuta. Ne risultano versi carichi di tensione in cui però l’io lirico sembra rifugiarsi e per una volta riconoscersi: è solo un povero fiore di fiume che si è aggrappato alla poesia. Può darsi che la ricerca di semplicità abbia bussato alla porta, anche a quella di un poeta della difficoltà.

 

Foto di Viviana Nicodemo

(Visited 1 times, 1 visits today)