Il festival delle Colline Torinesi ospita la terza tappa della trilogia sull’Europa del regista svizzero, oggi più attuale che mai
Come una lezione di storia mediterranea recente, Empire di Milo Rau dovrebbe diventare obbligatorio per ogni parlamentare che la mattina va a servire non una, ma le centomila patrie racchiuse nello spirito di ogni europeo, anche se spesso non ne serve nessuna.
Il festival delle Colline Torinesi ha ospitato la terza tappa di una trilogia sull’Europa che il regista svizzero ha inaugurato nel 2014 al Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles con The Civil Wars, proseguendo nel 2015 con The Dark Ages fino a questa struggente testimonianza a quattro voci presentata nel 2016.
Come in altri suoi spettacoli, anche in Empire Milo Rau costruisce la drammaturgia a partire dalla biografia dei suoi attori. Da una parte il greco Akillas Karazissis, con il personaggio di Agamennone tra le dita, e la rumena Maia Morgenstern, attrice di Angelopoulos oltre che Maria nella Passione secondo Mel Gibson, attori di esperienza seduti in un misero cucinino insieme ad altri due attori più giovani, entrambi siriani, fuggiti da guerre e atrocità del presente: Rami Khalaf, arrivato in Francia con documenti falsi dopo aver partecipato alle manifestazioni contro il regime di Assad, e il curdo Ramo Ali, rinchiuso per mesi in una cella di un metro quadro.
Un confronto geografico al di là e al di qua dello stesso mare, mediato da una telecamera a cui gli attori si rivolgono per raccontarsi, testimoni di vite e destini come tanti, trascinati con indifferenza lontani da patria, parenti e amici. Un confronto anche generazionale, con i volti ingranditi in diretta sullo schermo senza concedersi neanche un attimo di vittimismo, retorica o enfasi. Ceaușescu e i colonnelli, il razzismo e l’antisemitismo, un fratello scomparso durante le proteste, ritrovato tra le immagini di un sito che raccoglie i corpi deformati dalle torture della polizia siriana.
E poi ancora gli attentati devastanti, le fughe anonime attraverso la notte più buia della ragione, dove si è soli di fronte all’odio e alla violenza insensata che affolla senza tregua le cronache del nostro tempo.
Milo Rau, con la discreta testimonianza dei suoi attori, ci trascina nel crogiolo di culture, lingue e religioni dei popoli del Mediterraneo come un nuovo Canetti, senza sconti ma anche senza ricatti morali: solo uno spietato e radicale neorealismo per indagare come una crisi, politica o economica che sia, possa entrare nella biografia delle persone e cambiarle per sempre, marchiando il loro spirito come solo la sfrontatezza del dolore può fare.
È sorprendente che per entrare nelle vite degli altri a volte basti una fotografia da bambini, o un messaggio vocale lasciato da un padre anziano, portali di accesso per un’intimità nascosta, senz’altro diversa dalla nostra, ma che lascia spazio a un universale riconoscibile.
Certo i lutti e le sofferenze altrui non potranno mai alleggerire l’angoscia della perdita, la paura della morte, nostra o dei nostri cari: non esiste catarsi, dentro o fuori da un teatro, che possa smussare questi abissi.
Eppure, misteriosamente, non c’è pessimismo in Empire, né rassegnazione: magari la morte non si sconfigge, ma certo si può affrontare. In questo senso Empire potrebbe essere una delle rappresentazioni più lucide di oggi del coraggio della verità.
Una verità non solo psicologica o storica, ma anche artistica, quando Akillas Karazissis ragiona sul ruolo dell’attore, che non diventa un personaggio ma recita accanto ad esso, con le virgolette delle battute che si devono sentire (riecco Strehler).
Così le tracce si moltiplicano: il possente ritorno a casa di Agamennone nell’Orestea, la statua di Lenin che naviga sul Danubio nello Sguardo di Ulisse, la musica malinconica di Eleni Karaindrou fatta di lontananze irraggiungibili, finché un improvviso senso di serenità, di armonia, persino di fratellanza invade corpo e anima dello spettatore nel momento in cui il racconto si interrompe, come se la mancanza d’amore descritta si trasformasse improvvisamente nella sua più urgente possibilità.
Fotografie di Andrea Macchia