Dall’esordio da dilettante a Rivarolo del Re nel Cremonese all’ultimo successo “Mina Fossati”, subito volato in testa alle classifiche pochi mesi fa. In mezzo ottant’anni di prodigi canori: Brava, Se telefonando, Amor mio, Io e te da soli, E se domani per citarne solo alcuni. Ripercorriamo insieme una carriera grande, grande, grande
Buon compleanno, Mina. Ottant’anni e non sentirli, se riesce ancora a cantare drammatica o lievissima, la voce con appena qualche incrinatura quasi impercettibile ma più intensa che mai, come nel molto bello Mina Fossati uscito lo scorso novembre e volato in cima alle classifiche.
Dice il compagno d’avventure Ivano Fossati, che per lei si è rimesso a scrivere e a cantare infrangendo il voto del silenzio fatto nel 2012: «La particolarità di Mina è che alla base di ogni sua emissione, ogni sua nota, c’è il pensiero. Spesso mi ritrovavo a incidere di nuovo la mia voce dopo aver sentito la registrazione di Mina, non è che fosse una gara, è chiaro, ma sentire lei mi spingeva continuamente a migliorarmi.
Ottant’anni e dal 1978 soltanto voce, pura voce: via dalle scene, via dalle tv e dalle comparsate pubbliche. Io sto a casa, non gioco più, come da una sua celebre canzone, e ben prima del coronavirus, senza costrizioni. Nel buon retiro svizzero di Lugano, felice di invecchiare e di non essere esposta alle curiosità e al cannibalismo del pubblico. Lo studio di registrazione a portata di mano, e un album all’anno. A dimostrazione che in casa ci si può stare, e starci bene.
Passiamoli in rassegna allora, questi ottant’anni di prodigi, provando a dare i numeri: 62 anni di attività – Mina ha esordito a diciott’anni, nel 1958 – e oltre 1.500 canzoni interpretate, 118 album pubblicati – settantaquattro di studio, tre dal vivo, una colonna sonora e quaranta antologie – e una presenza nelle classifiche che nessuna cantante italiana può vantare: 24 primi posti, 61 secondi e terzi posti, 86 quarti e quinti posti, 114 volte tra il sesto e il decimo posto, 130 volte fra l’undicesimo e il ventesimo, con un totale di 79 album e 62 singoli catapultati nella hit parade, 150 milioni di dischi venduti fino al 2010.
E pensare che era cominciato tutto per gioco: il divertimento di una ragazza cremonese di buona famiglia, padre industriale chimico. Studentessa svogliata di ragionieria, la slanciatissima Anna Maria Mazzini alta poco meno di un metro e ottanta, in vacanza a Forte dei Marmi con i genitori, accetta una scommessa con gli amici e sale sul palco della Bussola dopo che ha finito di esibirsi don Marino Barreto junior, un cantante cubano allora abbastanza popolare. Il padrone del locale, Sergio Bernardini, nelle serate successive dovrà faticare per tenerla lontana dal microfono.
Poi un esordio da dilettante nel 1958 a Rivarolo del Re, un comune del cremonese, con un quintetto di amici, gli Happy Boys. Lo racconterà la stessa Mina, mezzo secolo dopo, scrivendo per La Stampa: «Una lungagnona col vestito da cocktail sottratto di nascosto alla madre saliva sul palco traballante di una balera. Si ricorda che l’abito era blu e bianco. Lucido. Si ricorda che dopo aver cantato la prima canzone, il titolo? no, è troppo, si arrabbiò, perché la gente applaudiva. “Io canto per me. Cosa c’entrano loro?” Non aveva le idee chiare. O forse era troppo lucida. Si ricorda che alla fine di quella primissima esperienza scappò via perché i genitori… non sapevano… non volevano. A diciott’anni, nel 1958, era d’obbligo ubbidire. Ma non l’aveva fatto. E doveva correre subito a rimettere l’abito a posto il più in fretta possibile. Si ricorda che poco dopo, dietro le sue insistenze, il padre aveva convinto la madre: “Tanto, cosa vuoi, durerà qualche settimana questa follia. Lasciamola fare”. La lungagnona invece è ancora qui».
All’inizio è sia Baby Gate, la rocker che rifà Be-bop-a-lula, sia Mina, l’urlatrice (e già, allora ci sono gli “urlatori” e i “cantanti confidenziali”) che stravolge una canzone sanremese di Wilma De Angelis, Nessuno, spezzando la melodia, triplicando il ritmo, eliminando il salto di tonalità, cantando senza il minimo interesse per il testo, scriverà Gianni Borgna. E sabotando anche un altro classico sanremese del periodo, Tua. Canto d’amore casto e virtuoso per Tonina Torrielli, la “caramellaia di Novi Ligure”, canzone sensuale e censuratissima per Jula De Palma alla quale rovinerà la carriera. Diamo la parola a Edmondo Berselli: «Mina ne ricava una cosa tutta superficiale, tutta sesso, senza problemi, una scopatina da trattare con un’alzata di spalle».
Al primo successo in odore di scandalo fanno seguito le canzoni stralunate e surreali, le tintarelle di luna, le zebre a pois, le folli banderuole, i Renato Renato Renato così carino così educato con il nome di lui ripetuto 54 volte, i coriandoli e i pezzettini di bikini, le briciole di baci.
Nel 1961 di 24.000 baci a Sanremo c’è anche Mina, con una canzone che in anni più tardi si sarebbe detta psichedelica. Le mille bolle blu scuote il pubblico, arriverà soltanto quinta ma che non vinca è un dettaglio, è nata una stella. Racconta Berselli: «Addosso, un abito sul filo del delirio con un colletto da collegiale, ma ricoperto da impossibili palle-bolle blu di varie dimensioni. E soprattutto quel gioco di bocca: “blll”, facendo anche il gesto con le dita roteate sulle labbra, irridente, irritante, “orale”, stupidamente sexy, per scandalizzarvi meglio».
Intanto, Mina ha già ottenuto un successo clamoroso con l’altrettanto e forse più scandalosa Il cielo in una stanza di Gino Paoli, due milioni di dischi venduti, è una diva anche in Spagna Germania e Giappone (restano una manciata di canzoni, Anata to watashi per esempio). Alberto Arbasino scrive: «Certe canzoni di Mina vengono apprezzate sia dal mio elettrauto sia dal professor Roberto Longhi». Fra gli ammiratori c’è anche un entusiasta Totò: «Quell’anima lunga che sembra un contrabbasso con tutte le corde a posto, quelle carni bianche da gelato alla crema, quella creatura che recita poco e male, che ride al momento sbagliato, coprendosi la bocca con la mano. Ma se si spengono le luci e lei comincia a cantare, da quella voce escono grandi palcoscenici, pianto e risate».
Di lei si accorge anche Oriana Fallaci, inviata a Sanremo, che prova a demolirla: «La Mina è sdraiata, non senza languore, su un letto d’albergo, accanto all’abito nero, da diva, che indosserà per cantare con voce da intenditrice Io amo, tu ami, e fa le bolle di sapone con un pesciolino di plastica rossa. E non dorme se non ha l’orsacchiotto fra le lenzuola, per quanto stravagante ciò possa sembrare in una ventenne cui hanno attribuito trentatré fidanzati». C’è già, con in più una punta di malcelata invidia, il clichè classico dell’insopportabile Oriana, che dividerà sempre il mondo degli intervistati tra i nemici da abbattere e i cretini da compiangere, mai un briciolo di empatia nella sua recita dell’ego. Mina le appare cretina al di là di ogni possibile redenzione. Non sa niente (la cantante esagera la sua ignoranza, sfottendola, le signorine grandi firme non le fanno impressione) e la giornalista annota sconsolata, senza aver capito il gioco: «Non sa nemmeno chi diriga il governo, non sa che Nenni è socialista, e non sa che in Arabia le musulmane portano il velo. “Dimmi, chi era questo Maometto? Che nome simpatico! Se un giorno avrò un figlio, voglio chiamarlo Maometto”». Conclude Oriana, applaudendosi: «È una bambina cui bisogna voler bene come ad una sorellina che va difesa perché non sa dire le bugie, ma… davvero essa riassume l’enigma di una generazione da cui ci divide un invalicabile abisso». Bum.
Mina, in quegli anni, non si lascia intimidire neppure dal paternalismo di Mario Soldati, che le chiede che cosa legga. E lei: «Guardi, io leggo solo Paperino». Soldati, condiscendente: «Molti intellettuali lo leggono». E Mina, sfrontata e geniale: «Davvero? E lo capiscono?». Esemplare, di quel periodo, il faccia a faccia con Luchino Visconti, che prova ad aggredirla ma è costretto rapidamente a rinculare. Lei, sfacciata: «Che bella stoffa questa giacca. Che bell’accendino, roba da ricchi. Mi offre una sigaretta?» Lui, sulle sue: «Le do anche il bocchino col filtro». Mina, finta oca con le unghie affilate: «Che lusso! Me l’avevano detto che lei è un signore». Visconti, curioso: «Perché quest’anno non è andata a Sanremo?». Mina: «Detesto le mode, detesto anche il divismo». Lui, sarcastico: «Anche lei è un prodotto del divismo». E Mina, per niente intimidita: «Anche lei». Visconti, già sulla difensiva: «Io no: io, semmai, produco il divismo, non sono un prodotto del divismo. In ogni modo, anche se posso aver favorito il divismo di altri, l’ho fatto involontariamente perché le mie preoccupazioni sono sempre state diverse». Mina, definitiva: «Nemmeno io mi preoccupo se sono o non sono una diva. Canto per me perché mi piace cantare. Il giorno che non mi piacerà più, smetterò». Chapeau a Mina, manterrà la parola.
In quegli anni ’60 che si aprono sotto il segno dell’opulenza intravista e del divertimento e che paiono interminabili, l’irrequieta Mina, nel 1963, fa scoppiare uno scandalo con il botto in un’Italia bigotta e sessuofobica. I giornali le hanno attribuito flirt più o meno veri, più o meno ad uso dei rotocalchi (con Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Maurizio Arena, Umberto Orsini), ma la sua storia con l’attore Corrado Pani, sposato ancorché separato, è la stessa Mina a rivelarla quando convoca una conferenza stampa per annunciare che aspetta un figlio e che non può tenere nascosta «la gioia più grande della mia vita». Provano a crocifiggerla: l’Osservatore Romano la bolla come “pubblica peccatrice”, padre Virginio Rotondi l’accusa sui giornali (e lei, sempre e ancora lietamente sfrontata: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra») per poi dire che la perdona e darebbe la sua vita per redimerla (e lei, beffarda: «Esagerato»), la Rai la cancella dai programmi. La lapidazione però non riesce, le pietre scagliate tornano al mittente perché l’opinione pubblica, soprattutto femminile, è con lei. Perché si è abbandonata a un amore senza temerne le conseguenze, perché non ha nascosto il figlio e perché in qualche modo è stata un modello nuovo, una donna che decide della sua vita senza chiedere permessi. E quando Massimiliano nasce, alla clinica Mangiagalli arriveranno oltre seicento regali di amici e ammiratori anonimi. Commenterà quel periodo, anni più tardi, dicendo: «Il massimo è stata una foto su Epoca dove io ridevo con Corrado con il mio pancione, tranquilla, e sotto scritto: “Cosa avrà da ridere?” Guarda che è il massimo, me la ricorderò tutta la vita una cosa del genere».
Nasce in quegli anni una nuova Mina, meno epidermica e più matura, più convinta di possedere una voce straordinaria (si ricordi quel saggio di virtuosismo assoluto che è Brava, confezionato per lei nel 1965 da Bruno Canfora), che riesce a cantare di tutto, non soltanto canzoni da ombrellone e sigle televisive, ma anche Summertime di Gershwin e la Fuga a due voci in do minore di Bach accompagnata dal flauto di Severino Gazzelloni. Nascono in quel periodo le grandi canzoni del suo repertorio, i classici che ancora oggi ricordiamo con gratitudine.
Si comincia nel 1963 con Città vuota, si prosegue nel ’64 con le splendide Un anno d’amore (l’ha scritta Nino Ferrer) e E se domani, languide e piene di struggimenti felpati, si tocca il vertice nel 1966 con Se telefonando, musica di Ennio Morricone e testo di Maurizio Costanzo e Gaetano De Chiara, capolavoro.
In quegli anni Mina fece la fortuna di molti: per esempio del giovane Fabrizio De Andrè, che salvò dal rischio di finire in uno studio legale portando al successo La canzone di Marinella (anni più tardi avrebbe ripetuto la magia per un Ivano Fossati alle prime prove cantautorali, lanciandogli La casa del serpente). E sul finire del decennio ebbe lo splendido incontro con Lucio Battisti che produsse un’esibizione memorabile in tv (già, nel frattempo era diventata entertainer consumata, vedette dei vari Studio Uno) e quattro canzoni tutte per lei, anche queste ai vertici della sua discografia: Insieme (1970), Io e te da soli e Amor mio (1971) e La mente torna (1972).
Intanto la storia con Corrado Pani è finita da tempo, sta per terminare anche quella con il direttore d’orchestra Augusto Martelli e nel 1973 morirà Virgilio Crocco dal quale ha avuto la figlia Benedetta. In tutti questi impegni frenetici, tanta tv e tante classifiche, il tradizionale appuntamento estivo con il pubblico della Versilia alla Bussola, la popolarità è altissima ma il periodo magico sta per finire.
Lei si è sempre sottratta agli impegni che non riteneva adatti. Ha detto no a Frank Sinatra che le ha mandato un emissario con un assegno in bianco perché cantasse con lui in America, motivando il rifiuto con la paura di volare. Ha detto no a Federico Fellini che la voleva forse per Satyricon, forse per il mai realizzato Viaggio di G. Mastorna («Mina ha la faccia della luna. Gli occhi sono dolci e crudeli. La bocca chiama dal cielo le comete: basta un fischio. Poi è tanta. Il mio amico Sordi dice che è ‘na fagottata de roba»), e dirà di no anche a Francis Ford Coppola che, nel Padrino, voleva affidarle il ruolo che poi andrà a Diane Keaton. Senza dare spiegazioni, un semplice no grazie. E non si è fatta lusingare né dagli inviti del potere (a un ministro che la voleva a chissà quale cerimonia pubblica ha fatto rispondere dal suo impresario Elio Gigante: «Digli che me ne infischio») né ha dato troppa importanza a complimenti che altri avrebbero ipotecato mezza carriera per riceverli: racconta il figlio Massimiliano che, quando arrivò un telegramma di Paul McCartney che si complimentava per la sua interpretazione di Yesterday, lei lo lesse, commentò: «Oh, ma che carino» e lo buttò nel cestino.
Ora però, mentre si inoltra nei ’70, Mina sente che è il tempo di mollare. Lo dice già in un’intervista di quegli anni, carica di insofferenza: «È diventato un lavoro e come per incanto non mi sono divertita più. Quando lavoro dal vivo devo superare un trauma che ogni volta è più grave e insuperabile, ogni volta mi chiedo se veramente ne vale la pena o no. E poi questo mostrarmi, così, è una cosa che non mi è mai piaciuta. Adesso poi è diventato talmente pazzesco che potrei uscire, far tre passi e tornar dentro: non gliene frega un… se canto bene, se canto male, se non canto addirittura o se scrivo a macchina». Lo ribadisce nel 1975 con una canzone, lo abbiamo già detto, Non gioco più. E nel 1978, dato l’ultimo concerto, si ritira.
Va a vivere a Lugano, libera di ingrassare, di giocare a carte e bere vino con gli amici (intanto si è legata al cardiochirurgo Eugenio Quaini, nel 2006 lo sposerà). Libera di incidere un disco doppio all’anno, una metà dedicata alle cover di brani più o meno celebri, l’altra a composizioni originali spesso non memorabili. Ma, come dicono, potrebbe cantare anche l’elenco del telefono, e quando accantona la sua proverbiale pigrizia si dedica a progetti più ambiziosi: la canzone napoletana, il Brasile, il songbook americano classico, addirittura le arie d’opera ammansite per il pubblico pop. Una cosa insolita e preziosa dall’esilio luganese, fino ad anni recenti, Mina la fa: scrive sui giornali. Esordisce su Liberal nel 1998, è editorialista per La Stampa dal 2000 al 2011, tiene una rubrica di posta per Vanity Fair dal 2003 al 2015. Varrebbe la pena di raccoglierle in un libro queste sue prose: divertenti, argute, spesso ironiche, ricche di stile e scintillanti di intelligenza.
Il ritiro, e gli ultimi trenta e passa anni di carriera “in assenza” da parte di Mina, danno ragione all’uomo che le aveva cucito addosso Brava, il direttore d’orchestra Bruno Canfora: «Le manca totalmente l’assillo della perfezione. Non è presunzione, la sua, intendiamoci. È un atteggiamento spontaneo. Mina è come un’auto da corsa che può raggiungere i 300 chilometri all’ora e marcia invece a 200». Il potrei ma non voglio come regola di vita, una buona metafora per molta eccellenza italiana. Buon compleanno, Mina