Alla vigilia dell’uscita del loro nuovo album insieme, ripercorriamo la storia della “ragazzaccia che ci ha fatto sognare e del ragazzaccio che spesso ci ha fatto infuriare”
A volte ritornano. Mina, 77 anni il prossimo marzo, e Adriano Celentano, 79 anni il prossimo gennaio, la coppia più bella del mondo, ciascuno dei due con il suo bel palmarès di 150 milioni di dischi venduti, danno un seguito all’album di coppia che diciott’anni fa, copertina in cui apparivano nei panni di Paperino e Paperina, sbancò le classifiche con quasi due milioni di dischi venduti. Un lavoro di atroce bruttezza, la critica ci girò attorno contestualizzando e sfumando, prendendola alla larga e allungando il brodo del giudizio reticente con le loro storie, ma tant’è, con due voci come le loro, che “possono cantare anche l’elenco del telefono”, le canzoni da tempo non erano la cosa più importante.
Accadrà così anche stavolta? Francamente non saprei e un po’ me ne infischio, la prima canzone anticipata, Amami amami, è piacevole quanto basta anche se non fa gridare al miracolo, però fanno simpatia e un po’ di tenerezza i due vecchi svitati che alla soglia degli ottant’anni cantano di amore-passione come facevano tanti anni fa, nei migliori anni della nostra (dolce? agra?) vita che li vedevano lui molleggiato, lei tigre padana.
Quanto al resto, lo scopriremo solo ascoltando: nell’album ci sono dodici canzoni, nove inedite cantate insieme e una a testa da soli. In più, bonus di lusso destinato con ogni probabilità a essere molto ascoltato, c’è il remix a due voci di Prisencolinensinainciusol, proto-rap datato 1972 che allora Celentano impose con il suo vertiginoso grammelot di inglese inventato che neanche Alberto Sordi ai tempi di Nando Moriconi. Già mi aspetto Mina fare acrobazie vocali sul modello di Brava, e va detto che la voce, in tutti e due, è rimasta intatta. Poi, dalle indiscrezioni che filtrano, c’è la solita predica del Re degli Ignoranti, Il bambino col fucile, banalità spacciate per l’apocalisse ma ci abbiamo fatto il callo: «A Medjugorje si vede la Madonna e sta piangendo, la nonna in minigonna in Parlamento, all’asilo c’è un bambino col fucile…». E c’è Mina che, pensando all’amore e forse al mestiere, ribadisce forse il suo non gioco più, me ne vado definitivo: Quando la smetterò.
Stavolta però li prenderemo per oro colato, per monumenti della patria come in effetti sono, superstiti di un’età dell’oro della musica leggera, della canzonetta che non c’è più: spariti da tempo i cantautori con sparse eroiche eccezioni, confinate nel ruolo di gradevoli e un po’ residuali cantanti pop più o meno impegnate quelle che un tempo si chiamavano con una punta di sussiego “interpreti” (si ascolti l’ultima prova di Fiorella Mannoia), rifluiti grandi e piccoli in un perenne sciorinìo dell’antico repertorio (Morandi con Baglioni, l’interminabile addio dei Pooh e la pioggerellina sottile di ristampe e antologie), e per il resto la sagra perenne, gradevole quanto insapore dei talent show e dei bambini canterini, e antichi rocker riciclati nel ruolo di giudici tv, vuoi vedere che alla fine sulla breccia restano loro?
E allora mi affido anch’io all’amarcord, per dire che questa è la storia di due di noi, anche loro nati per caso in via Gluck o a Cremona. Due che, partiti più o meno nello stesso periodo, alla vigilia del miracolo economico, per farci vedere l’America, hanno fatto percorsi che più diversi non si sarebbe potuto, lui tutto teso a esserci e ad esondare, a prendersi sul serio e a pontificare, e lei a non prendersi sul serio e sempre tentata dalla voglia di scappare. Di non giocare più, di andarsene appunto. Come più o meno ha fatto, da quell’ultima esibizione dal vivo alla Bussola nel 1978.
In quel finale di anni ’50 in cui esordiscono scandalizzando e vellicando i borghesi, lui è il figlio di un sarto pugliese trapiantato a Milano, che prima di cantare ha fatto le battagliole con i coetanei nelle strade del suo quartiere e l’apprendista orologiaio, e lei la figlia di un cumenda cremonese che ha l’aziendina chimica e la moglie piacente, l’estroversa svogliata che al quarto anno di ragioneria è riuscita a farsi bocciare in tutte le materie. Al successo arrivano come per caso, lui fortemente volendolo e lei senza neanche accorgersene.
Celentano, già nel 1956, tenta i primi provini alla Rai. Lo bocciano, restano ancora i verbali di quelle antiche audizioni: «Giovane dilettante di parodie, ha una maschera abbastanza interessante, di estrema somiglianza con Jerry Lewis, ma disordinato e inconsistente, da ragazzo esuberante. Non interessa». Interessante/ non interessa, curioso. Stesso verdetto nell’anno successivo, lui insiste con le sale di viale Zara e con il Santa Tecla che «era tutto nero con gli orinali che pendevano dai soffitti, la morte, le facce, i mostri», arremba facendo sensazione al Palazzo del Ghiaccio con Enzo Jannacci in formazione, poi il discografico Walter Guertler che lo ha messo sotto contratto lo manda al festival di Ancona. È il 1959, c’è la diretta tv con dieci milioni di spettatori, lui stravince con Il tuo bacio è come un rock, si piazza anche secondo e, già ganassa come non smetterà più di essere, dichiara che se avesse potuto cantare tre canzoni sarebbe arrivato anche terzo. In una settimana vende 300mila copie, ha già ad accompagnarlo I Ribelli, è pronto per Sanremo ma si accontenta di replicare il successo con una Teddy girl che è una pupa in technicolor con il juke-box nel suo cuor. E di affrontare per la prima volta la politica da par suo, con uno strambo Nikita rock che non soffre certo di complessi di inferiorità:
Con il colbacc
calzoni alla mugik
arriva Nikita da lontan
pilotando lo Sputnik.
Non sarà chic
ma ti fa venir lo schock
quando senza dire manco niet
mette in orbita un lunik.
Mio caro Ike
se vuoi evitare guaik
dai retta a me, non fare lo sciock
a Nikita insegna un rock.
A Sanremo ci arriva nel 1961 dando le spalle al pubblico per poi guardarlo dritto negli occhi dopo un balzo e una giravolta da balengo, microfono in pugno, con una rumba rock da stakhanovista della performance amorosa, 24.000 mila baci, non uno di meno. Si piazza secondo dietro i tranquillizzanti e un po’ narcolettici Luciano Tajoli e Betty Curtis di Al di là, è nata una stella.
Diversa storia per Anna Maria Mazzini che ancora non sa se chiamarsi Mina o Baby Gate o Mina Georgi. Divertimenti da figlia di buona famiglia che, in vacanza a Forte dei Marmi con i genitori, accetta una scommessa con gli amici e sale sul palco della Bussola dopo che ha finito di esibirsi don Marino Barreto junior, un cantante cubano in quei tempi abbastanza popolare. Il padrone del locale, Sergio Bernardini, nelle serate successive dovrà faticare per tenerla lontana dal microfono.
E un esordio da dilettante nel 1958 a Rivarolo del Re, un comune del cremonese, con un quintetto di amici, gli Happy Boys. Lo racconterà la stessa Mina, mezzo secolo dopo, scrivendo per La Stampa: «Una lungagnona col vestito da cocktail sottratto di nascosto alla madre saliva sul palco traballante di una balera. Si ricorda che l’abito era blu e bianco. Lucido. Si ricorda che dopo aver cantato la prima canzone, il titolo? no, è troppo, si arrabbiò, perché la gente applaudiva. “Io canto per me. Cosa c’entrano loro?” Non aveva le idee chiare. O forse era troppo lucida. Si ricorda che alla fine di quella primissima esperienza scappò via perché i genitori… non sapevano… non volevano. A diciott’anni, nel 1958, era d’obbligo ubbidire. Ma non l’aveva fatto. E doveva correre subito a rimettere l’abito a posto il più in fretta possibile. Si ricorda che poco dopo, dietro le sue insistenze, il padre aveva convinto la madre: “Tanto, cosa vuoi, durerà qualche settimana questa follia. Lasciamola fare”. La lungagnona invece è ancora qui».
All’inizio è sia Baby Gate, la rocker che rifà Be-bop-a-lula, sia Mina, l’urlatrice (e già, allora ci sono gli “urlatori” e i “cantanti confidenziali”) che stravolge una canzone sanremese di Wilma De Angelis, Nessuno, spezzando la melodia, triplicando il ritmo, eliminando il salto di tonalità, cantando senza il minimo interesse per il testo, scriverà Gianni Borgna. E sabotando anche un altro classico sanremese del periodo, Tua. Canto d’amore casto e virtuoso per Tonina Torrielli, la “caramellaia di Novi Ligure”, canzone sensuale e censuratissima per Jula De Palma alla quale rovinerà la carriera. Diamo la parola a Edmondo Berselli: «Mina ne ricava una cosa tutta superficiale, tutta sesso, senza problemi, una scopatina da trattare con un’alzata di spalle».
Al primo successo in odore di scandalo fanno seguito le canzoni stralunate e surreali, le tintarelle di luna, le zebre a pois, le folli banderuole, i Renato Renato Renato così carino così educato, i coriandoli e i pezzettini di bikini, le briciole di baci. Nel 1961 di 24.000 baci a Sanremo c’è anche Mina, con una canzone che in anni più tardi si sarebbe detta psichedelica:
Se tu
chiudi gli occhi e mi baci
tu non ci crederai
ma vedo
le mille bolle blu
e vanno leggere, vanno
si rincorrono
salgono
scendono
per il ciel
Le mille bolle blu scuote il pubblico, arriverà soltanto quinta ma che non vinca è un dettaglio neppure dei più importanti, anche qui è nata una stella. Racconta Berselli: «Addosso, un abito sul filo del delirio con un colletto da collegiale, ma ricoperto da impossibili palle-bolle blu di varie dimensioni. E soprattutto quel gioco di bocca: “blll”, facendo anche il gesto con le dita roteate sulle labbra, irridente, irritante, “orale”, stupidamente sexy, per scandalizzarvi meglio».
Intanto, Mina ha già ottenuto un successo clamoroso con l’altrettanto e forse più scandalosa Il cielo in una stanza di Gino Paoli, due milioni di dischi venduti, è una diva anche in Spagna Germania e Giappone (restano una manciata di canzoni, Anata to watashi per esempio), Alberto Arbasino scrive: «Certe canzoni di Mina vengono apprezzate sia dal mio elettrauto sia dal professor Roberto Longhi».
Due giornaliste agli antipodi cercano di fissare i tratti di questi due irregolari che hanno sovvertito un secolo di belcanto, di mamme e di vecchi scarponi. Centra il bersaglio Camilla Cederna che individua subito il familista, il sultano, il figlio-padrone intento a costruire il suo Clan che frulla dischi affetti e sudditanze, lo sbaglia l’insopportabile Oriana Fallaci che vede l’ochetta e non si accorge di essere presa in giro da una che non ha complessi d’inferiorità e gioca a fare la finta tonta.
Racconta la Cederna, descrivendo l’interno di casa Celentano: «La mamma cuoceva (i peperoni con l’acciuga), la cugina spolverava (le foglie del ficus), la zia stava immobile (a guardarsi un vecchio film in televisione), la fidanzata leggeva (l’antologia di Cucciolo) e Adriano dormiva (perché aveva fatto tardi la sera)». Ma all’improvviso «la fidanzata alza su dai fumetti i suoi begli occhi turchini, la madre smette di parlare e la cugina di spolverare, si capisce che qualcosa sta per succedere; infatti come scivolando sulle mattonelle, in maglietta traforata, pantaloni a zampa d’elefante, al collo una mezza medaglia con su scritto: “Divisi ma – Sempre uniti” (l’altra metà ce l’ha la fidanzata Milena), color oliva in faccia, e in più qualche ombra più scura di barba, gli occhi color cioccolato e un franco sorriso pieno di denti, simile insomma a un elegante antropide svegliato a fatica, attraverso la sua giungla domestica avanza Adriano».
E racconta la Fallaci, inviata a Sanremo: «La Mina è sdraiata, non senza languore, su un letto d’albergo, accanto all’abito nero, da diva, che indosserà per cantare con voce da intenditrice Io amo, tu ami, e fa le bolle di sapone con un pesciolino di plastica rossa. E non dorme se non ha l’orsacchiotto fra le lenzuola, per quanto stravagante ciò possa sembrare in una ventenne cui hanno attribuito trentatré fidanzati». C’è già, con in più una punta di malcelata invidia, il clichè classico di Oriana, che dividerà sempre il mondo degli intervistati tra i nemici da abbattere e i cretini da compiangere, mai un briciolo di empatia nella sua recita dell’ego. Mina le appare cretina al di là di ogni possibile redenzione. Non sa niente (la cantante esagera la sua ignoranza, sfottendola, le signorine grandi firme non le fanno impressione) e la giornalista annota sconsolata, senza aver capito il gioco: «Non sa nemmeno chi diriga il governo, non sa che Nenni è socialista, e non sa che in Arabia le musulmane portano il velo. “Dimmi, chi era questo Maometto? Che nome simpatico! Se un giorno avrò un figlio, voglio chiamarlo Maometto”». Conclude Oriana, applaudendosi: «È una bambina cui bisogna voler bene come ad una sorellina che va difesa perché non sa dire le bugie, ma… davvero essa riassume l’enigma di una generazione da cui ci divide un invalicabile abisso». Bum.
Mina, in quegli anni, non si lascia intimidire neppure dal paternalismo di Mario Soldati, che le chiede che cosa legga. E lei: «Guardi, io leggo solo Paperino». Soldati, condiscendente: «Molti intellettuali lo leggono». E Mina, sfrontata e geniale: «Davvero? E lo capiscono?». Per concludere alla grande rifiutandosi di cantare, perché non vuole disturbare quelli che leggono. Esemplare, di quel periodo, il faccia a faccia con Luchino Visconti, che prova ad aggredirla ma è costretto rapidamente a rinculare. Lei, sfacciata: «Che bella stoffa questa giacca. Che bell’accendino, roba da ricchi. Mi offre una sigaretta?» Lui, sulle sue: «Le do anche il bocchino col filtro». Mina, finta oca con le unghie affilate: «Che lusso! Me l’avevano detto che lei è un signore». Visconti, curioso: «Perché quest’anno non è andata a Sanremo?». Mina: «Detesto le mode, detesto anche il divismo». Lui, sarcastico: «Anche lei è un prodotto del divismo». E Mina, per niente intimidita: «Anche lei». Visconti, già sulla difensiva: «Io no: io, semmai, produco il divismo, non sono un prodotto del divismo. In ogni modo, anche se posso aver favorito il divismo di altri, l’ho fatto involontariamente perché le mie preoccupazioni sono sempre state diverse». Mina, definitiva: «Nemmeno io mi preoccupo se sono o non sono una diva. Canto per me perché mi piace cantare. Il giorno che non mi piacerà più, smetterò». Chapeau a Mina, manterrà la parola.
In quegli anni ’60 che si aprono sotto il segno dell’opulenza intravista e del divertimento e che paiono interminabili, Celentano abbandona subito le pose da ribelle del rock per diventare un capriccioso monarca assoluto dei suoi compagni d’avventura, Adriano non vuole complici ma famigli, e un fastidioso predicatore. Nel 1962 fonda il Clan, etichetta discografica e, si direbbe oggi, community di spiriti affini. Ci sono il nipote Gino Santercole, la fidanzata Milena Cantù incastonata nel ruolo di “ragazza del Clan”, i fidi Beretta e Del Prete, e poi Ico Cerutti, Ricky Gianco, Don Backy, Detto Mariano, Guidone, Pilade, i Ribelli e altre meteore. Durerà poco, all’incirca sei anni, e andranno via in molti: Gianco e i Ribelli perché trovano un’altra casa discografica, Don Backy litigando per questioni di diritti d’autore, Milena Cantù perché soppiantata da Claudia Mori che Celentano ha sposato in segreto, di notte, nel 1964.
Intanto, il cristiano spesso bigotto, che non si limita a credere ma vuole convertire, e il reazionario che scaglia strali indifferentemente contro i mali del mondo, contro i giovani e contro gli scioperanti, si fa sentire eccome. A partire dal 1962 in cui la cover di un successo di Ben E. King, Stand by, diventa con assoluto disprezzo del testo originale (ma allora era pratica corrente) un sermoncino a edificazione dei tiepidi e degli increduli, Pregherò («per te/ che la fede non hai/ e se un giorno tu vorrai/ crederai»).
Tra esuberanze da gran simpatico (e lui, con la sua estroversione meridionale e le sue pose da mattocchio dei matrimoni, simpatico lo è per davvero), tanghi galeotti col casché a beneficio delle serve in libera uscita («Al matinée del giovedì/ ballo liscio al Garden Blu/ con l’orchestra Serenade», Grazie prego scusi), il “problema più importante” di trovare una ragazza di sera, Adriano comincia intanto a sparare a palla incatenata contro la musica beat dei complessini in Tre passi avanti, dove
guarda che coppia
dicono già
visti di spalle chi è la donna non si sa
e progressivamente alza il tiro. C’è la mazurka antidivorzista La coppia più bella del mondo scritta da Paolo Conte per lui e Claudia Mori, l’inno dei crumiri d’Italia Chi non lavora non fa l’amore che vince a Sanremo nel 1970 tra mille polemiche. E l’intemerata urbi et orbi del Mondo in mi7:
Non esiste morale
c’è per tutti un complesso
un problema del sesso
e le persone serie
che non raccontan storie
le han spedite in ferie!
Questa terra è il monopolio delle idee sbagliate
qui si premiano quei film dove c’è un morto in più
si divorano i romanzi con il vizio a rate
c’è perfino corruzione dove c’è lo sport.
Anche gli amori sono monogamici e santificati, i tradimenti non si perdonano e la lei sposata che ritorna nel suo letto dopo averlo abbandonato viene respinta in modo assai rude («E uno schiaffo all’improvviso/ le mollai sul suo bel viso/ rimandandola da te», Storia d’amore). Non a caso, negli anni ’70 e ’80 Celentano troverà un autore congeniale nell’ “italiano vero” Toto Cutugno.
Eppure, l’artista di infallibile istinto (Celentano lo è sempre, anche in tempi recenti in cui incide De André e Fossati e si accompagna a Jovanotti, Manu Chao e Tricarico: viene in mente, per fare un parallelo, Alberto Sordi) azzecca in quegli anni due colpi clamorosi, due pietre miliari della sua discografia. Una è Il ragazzo della via Gluck, straordinario pezzo popolare che guarda alla moda del folk e lancia un’altra idea fissa di Adriano, l’ecologismo. Lo scartano incredibilmente a Sanremo 1967, avrà un successo mondiale duraturo. L’altra è Azzurro, Paolo Conte stavolta nella sua vena migliore, che nel 1968 colonizza il primo posto in classifica.
Tutt’altra storia per l’irrequieta Mina, che non convola a nozze e non fonda clan ma, nel 1963, fa scoppiare uno scandalo con il botto nell’Italia bigotta e sessuofoba di quegli anni. I giornali le hanno attribuito flirt più o meno veri, più o meno ad uso dei rotocalchi (con Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Maurizio Arena, Umberto Orsini), ma la sua storia con l’attore Corrado Pani, sposato ancorché separato, è la stessa Mina a rivelarla quando convoca una conferenza stampa per annunciare che aspetta un figlio e che non può tenere nascosta «la gioia più grande della mia vita». Provano a crocifiggerla: l’Osservatore Romano la bolla come “pubblica peccatrice”, padre Virginio Rotondi l’accusa sui giornali (e lei, sempre e ancora lietamente sfrontata: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra») per poi dire che la perdona e darebbe la sua vita per redimerla (e lei, beffarda: «Esagerato»), la Rai la cancella dalla programmazione. La lapidazione però non riesce, le pietre scagliate tornano al mittente perché i tempi stanno cambiando e l’opinione pubblica, soprattutto femminile, è con lei. Perché si è abbandonata a un amore, a una passione senza temerne le conseguenze, perché non ha nascosto il figlio e perché in qualche modo è stata un modello nuovo, una donna che decide della sua vita in piena autonomia, senza chiedere permessi. E quando Massimiliano detto Paciughino nasce, alla clinica Mangiagalli arriveranno oltre 600 regali di amici e ammiratori anonimi. Commenterà quel periodo, anni più tardi, dicendo: «Il massimo è stata una foto su Epoca dove io ridevo con Corrado con il mio pancione, tranquilla, e sotto scritto: “Cosa avrà da ridere?” Guarda che è il massimo, me la ricorderò tutta la vita una cosa del genere».
Intanto, anche l’amore aiuta e al diavolo gli scandali, nasce in quegli anni una nuova Mina, meno epidermica e più matura, più convinta di possedere una voce straordinaria (si ricordi quel saggio di virtuosismo assoluto che è Brava, confezionato per lei da Bruno Canfora), che riesce a cantare di tutto, non soltanto canzoni da ombrellone e sigle televisive, ma anche Summertime di Gershwin e la Fuga a due voci in do minore di Bach accompagnata dal flauto di Severino Gazzelloni. Nascono in quel periodo le grandi canzoni del suo repertorio, i classici, i capolavori che ancora oggi ricordiamo con gratitudine.
Si comincia nel 1963 con Città vuota, si prosegue nel ’64 con le splendide Un anno d’amore (l’ha scritta Nino Ferrer) e E se domani, languide e piene di struggimenti felpati, si tocca il vertice nel 1966 con Se telefonando, musica di Ennio Morricone e testo di Maurizio Costanzo e Gaetano De Chiara, capolavoro assoluto.
Lo stupore della notte
spalancata sul mar
ci sorprese che eravamo
sconosciuti io e te.
Poi nel buio le tue mani
d’improvviso sulle mie…
Sì, lo stupore della notte, di certe notti. Quando eravamo giovani, felici e sbalorditi per quel dono splendido e inatteso. Che il più delle volte non durava, non poteva durare, e nella voce di Mina c’era tutto questo, la grazia e la passione, la consapevolezza che l’amore è effimero, il disincanto e persino, a volte, una punta di insofferenza, un facciamola finita dai (L’importante è finire, che ancora negli anni ’70 farà scandalo). L’amore, quello vero che scalfiva la nostra maleducazione sentimentale, e non gli amori asessuati dei padri e delle madri tra papaveri e papere.
In quegli anni Mina fece la fortuna di molti: per esempio del giovane Fabrizio De Andrè, che salvò dal rischio di finire in uno studio legale portando al successo La canzone di Marinella (anni più tardi avrebbe ripetuto la magia per un Ivano Fossati alle prime prove cantautorali, lanciandogli La casa del serpente). E sul finire del decennio ebbe lo splendido incontro con Lucio Battisti che produsse un’esibizione memorabile in tv (già, nel frattempo era diventata entertainer consumata, vedette dei vari Studio Uno: su quel quarto d’ora di duetto fra Lucio e Mina un mio amico, Enrico Casarini, ha costruito un affascinante libro di trecento pagine) e quattro canzoni tutte per lei, anche queste ai vertici della sua discografia: Insieme (1970), Io e te da soli e Amor mio (1971) e La mente torna (1972).
Intanto la storia con Corrado Pani è finita da tempo, sta per terminare anche quella con il direttore d’orchestra Augusto Martelli e nel 1973 morirà Virgilio Crocco dal quale ha avuto la figlia Benedetta. In tutti questi impegni frenetici, tanta tv e tante classifiche, il tradizionale appuntamento estivo con il pubblico della Versilia alla Bussola, la popolarità è altissima ma il periodo magico, quello per cui verrai sempre ricordato, sta per finire.
Lei si è sempre sottratta agli impegni che non riteneva adatti. Ha detto no a Frank Sinatra che le ha mandato un emissario con un assegno in bianco perché cantasse con lui in America, motivando il rifiuto con la paura di volare. Ha detto no a Federico Fellini che la voleva forse per Satyricon, forse per il mai realizzato Viaggio di G. Mastorna («Mina ha la faccia della luna. Gli occhi sono dolci e crudeli. La bocca chiama dal cielo le comete: basta un fischio. Poi è tanta. Il mio amico Sordi dice che è ‘na fagottata de roba»), senza dare spiegazioni, un semplice no grazie. E non si è fatta lusingare né dagli inviti del potere (a un ministro che la voleva a chissà quale cerimonia pubblica ha fatto rispondere dal suo impresario: «Digli che me ne infischio») né ha dato troppa importanza a complimenti che altri avrebbero ipotecato mezza carriera per riceverli: racconta il figlio Massimiliano che, quando arrivò un telegramma di Paul McCartney che si complimentava per la sua interpretazione di Yesterday, lei lo lesse, commentò: «Oh, ma che carino» e lo buttò nel cestino.
Ora però, mentre si inoltra nei ’70, sente che è il tempo di mollare. Lo dice già in un’intervista di quegli anni, carica di insofferenza: «È diventato un lavoro e come per incanto non mi sono divertita più. Quando lavoro dal vivo devo superare un trauma che ogni volta è più grave e insuperabile, ogni volta mi chiedo se veramente ne vale la pena o no. E poi questo mostrarmi, così, è una cosa che non mi è mai piaciuta. Adesso poi è diventato talmente pazzesco che potrei uscire, far tre passi e tornar dentro: non gliene frega un… se canto bene, se canto male, se non canto addirittura o se scrivo a macchina». Lo ribadisce nel 1975 con una canzone, lo abbiamo già detto, Non gioco più. E dal 1978, dato l’ultimo concerto, si ritira.
Va a vivere a Lugano, libera di ingrassare, di giocare a carte e bere vino con gli amici (intanto si è legata al cardiochirurgo Eugenio Quaini, nel 2006 lo sposerà). Libera di incidere un disco doppio all’anno, una metà dedicata alle cover di brani più o meno celebri, l’altra a novelty spesso superflue, spesso pescate dal mazzo con scarsa o nulla selettività. Tanto è fatto tutto in casa: la Pdu per cui incide è roba sua, gli arrangiamenti sono del figlio Massimiliano. Nessun disco, neanche i peggiori e la sua discografia è ondivaga, è mai troppo brutto, c’è sempre qualcosa, a volte molto, da salvare, e la voce come sempre fa prodigi. Ma appunto, potrebbe cantare anche l’elenco del telefono, per quel che conta e per quel che resta. Una cosa insolita e preziosa dall’esilio luganese, fino ad anni recenti, Mina la fa: scrive sui giornali. Esordisce su Liberal nel 1998, è editorialista per La Stampa dal 2000 al 2011, tiene una rubrica di posta per Vanity Fair dal 2003 al 2015. Varrebbe la pena di raccoglierle in un libro queste sue prose: divertenti, argute, spesso ironiche, ricche di stile e scintillanti di intelligenza.
Il ritiro, e gli ultimi trentacinque e passa anni di carriera “in assenza” da parte di Mina, danno ragione all’uomo che le aveva cucito addosso Brava, il direttore d’orchestra Bruno Canfora: «Le manca totalmente l’assillo della perfezione. Non è presunzione, la sua, intendiamoci. È un atteggiamento spontaneo. Mina è come un’auto da corsa che può raggiungere i 300 chilometri all’ora e marcia invece a 200». Il potrei ma non voglio come regola di vita, una buona metafora per molta eccellenza italiana.
Tutt’altra storia per Adriano Celentano. Anche per lui il “magic moment” coincide con gli anni ’60, ma la sua popolarità non verrà mai meno. È alimentata in quegli inizi di anni ’70, oltre che dalle canzoni (Viola, Svalutation, Un albero di trenta piani, Soli, tra le altre), dall’attività di attore fino a quel momento sporadica. Ho fatto i conti, andandomi a spulciare la filmografia dell’ancora molleggiato: fra il 1973 e il 1992 Celentano gira ventitré film, una media abbondante di uno all’anno. Commedie non trascendentali ma quasi sempre premiate dagli incassi, girate spesso assieme a Renato Pozzetto (partner femminili Eleonora Giorgi, Ornella Muti con cui pare abbia avuto una storia, in Sing Sing del 1983 addirittura Vanessa Rdegrave), dirette per lo più da Castellano & Pipolo ma anche da Festa Campanile, Oldoini & c. E una cosa va detta subito: qualunque cosa si pensi di quelle pellicole, Celentano è un attore convincente.
Carismatico, sornione. Lo sarà anche, più tardi, nei suoi show televisivi, dove i suoi momenti fuori sincrono, le sue pause, i suoi silenzi e il suo fraseggiare rotto faranno impazzire critici come Norma Rangeri del Manifesto. Tre di questi film li dirige anche: il non spregevole e naif Yuppi Du (1975) e i pasticci velleitari Geppo il folle (1978) e Joan Lui (1985).
Ecco, ci siamo. Con Joan Lui che vede Celentano nei panni di un simil-Cristo, il delirio di onnipotenza trabocca, d’ora in poi il cantante dei sermoncini continuerà a essere un interprete sempre meno incisivo (ma con repentini ritorni alla qualità: per esempio nel 1999 Io non so parlar d’amore, tra le sue prove migliori, e quasi tutta la discografia del nuovo millennio) e in compenso un predicatore, in musica e in prosa, sempre più incontenibile. Né di destra né di sinistra, come nel fortunato Un uomo libero che gli confeziona su misura Fossati, può essere di volta in volta il “figlio della foca”, l’ambientalista apocalittico, l’invasato che dal palco di Sanremo invoca la chiusura dei giornali cattolici che non parlano di Dio ma di politica, lo showman che porta l’economista Jean-Paul Fitoussi e i giornalisti Rizzo e Stella sul palco dell’Arena di Verona a discutere di globalizzazione, il cittadino che sostiene di volta in volta Giuliano Pisapia o Beppe Grillo, il profeta di sciagura che azzarda scemenze oltraggiose come questa: «Quando l’indifferenza dilaga, le foglie appassiscono e vengono le malattie, il cancro, l’Aids, tutto ciò che purtroppo sta arrivando».
Per uno spazientito Giorgio Bocca che guardando l’edizione 1987-88 di Fantastico trova a reggere la scena «un cretino di talento», Eugenio Scalfari vede di più, e temo indovini: «Penso che stia nascendo una dimensione politica nuova che Celentano ha intercettato d’istinto… So per certo che qualche uomo politico particolarmente attento segue con grande interesse le sue esibizioni televisive… Farà scuola. Qualcuno prima o poi utilizzerà la lezione, perfezionerà l’esperienza, la volgerà a qualche fine mirato e politico».
Lo faranno Silvio Berlusconi e, in tempi più recenti, Beppe Grillo. Con le loro formazioni politiche modellate sull’esempio del Clan, attorno al carisma di Mastro Lindo. E con un nuovo modello di imprenditori della blandizie o del malcontento, che recitano la politica e si fanno pagare direttamente o indirettamente per recitarla perché «è un lavoro», mentre chiedono al contempo che alla “casta” dei politici venga tolto lo stipendio. Potenza dello showbusiness.
Ora i due sabotatori degli anni ’60, la ragazzaccia che ci ha fatto sognare e il ragazzaccio che spesso ci ha fatto infuriare, tornano assieme. Aspetto senza troppe aspettative, mi verrebbe da dire. Ma anche senza troppe prevenzioni e con una disposizione d’animo benevola, il tempo smussa proprio tutto. Ne sentirò delle belle, spero.