Ispirandosi a «Ritratto di un artista da vecchio» di Thomas Bernhard, Roberto Andò dirige il grande Roberto Herlitzka in una impagabile, amara riflessione d’atmosfera sull’arte e sulla rappresentazione di sé
Persino il viale del tramonto è passato già da un pezzo per il vecchio Minetti. Ma quando viene dimenticato nella hall di un albergo di Ostenda, sul mare del Nord, la notte di Capodanno, l’attore trova il tempo per il suo ultimo monologo. È la resa dei conti su vita e destino di uno dei più grandi teatranti del secondo novecento, Bernhard Minetti, amatissimo – oltre che da Strehler, con cui fece I giganti della montagna in tedesco – anche da un altro Bernhard, Thomas, che lo omaggiò con questo caustico ritratto post espressionista, tra i suoi testi teatrali più famosi, da vedere al Piccolo fino al 5 febbraio con la regia di Roberto Andò e il più bernhardiano degli attori italiani: Roberto Herlitzka.
Come al solito, per Bernhard la pièce è una scusa per spietati bilanci artistici ed esistenziali. A dispetto di un pubblico che non ha nessuna voglia di ascoltarlo, Minetti si scaglia in direzione ostinata e contraria contro il classico, inteso come teatro, pubblico, critica, recitazione, motivazioni stesse dell’arte.
Così la lucida irrazionalità dell’attore non fa sconti e non conosce soste: l’ultimo nastro di Minetti, il suo canto del cigno, investe con sussurri e grida l’intera ipocrisia borghese, artistica e non: tutto un «pattume spirituale» da cui un attore si può depurare solo negando la rappresentazione stessa.
Ecco perché negli ultimi trent’anni Minetti ha recitato Lear in soffitta davanti a uno specchio, da solo. Questo prima che il direttore del teatro di Flensburg lo chiamasse per un ultimo Lear, salvo poi non presentarsi all’appuntamento. Il bagaglio con cui viaggia Minetti è pieno di ritagli di giornale, recensioni e cronache di cause e processi ovviamente persi. Ma dentro c’è anche la sua maschera di Lear, prezioso feticcio fatto apposta per lui da James Ensor in persona, un artista la cui poetica del disprezzo è forse l’unica in Europa paragonabile alla misantropia di Bernhard.
Herlitzka è abile a trascinarsi nel caos estenuante, puntualissimo del testo. Con lui quel contrappunto di eccessi e angosce diventa liberatorio, «semplicemente complicato», per come viene continuamente smorzato dalla sua ironia, irresistibile. Così anche se non potremo mai contare sull’affidabilità di un direttore di teatro e forse su niente al mondo, nello sfogo nichilista dell’attore riusciamo a percepire una positività, addirittura una pars costruens.
Perché c’è del metodo in quell’inesausta contorsione di ripetizioni e ossessioni al limite della follia. Forse Minetti non sarà mai più Lear e il climax martellante non potrà che chiudersi con il suo suicidio, ma la fede nell’arte può avere un’altra occasione, in questo caso soprattutto grazie a Herlitzka.
Splendide scene di Gianni Carluccio, tra un interno della secessione viennese e Eyes wide shut, con anche la sorpresa finale di un Atlantico in lontananza – prevista dal testo. Quanto all’atmosfera di Andò, con i rumori horror, gli improvvisi al pianoforte, i festeggiamenti di San Silvestro in stile «Le maschere e la morte» di Ensor, riesce ad arrivare al grottesco anche se con una punta di albergo del libero scambio.
Minetti, regia di Roberto Andò, al Piccolo Teatro fino al 5 febbraio