I quattro percussionisti di Chicago hanno entusiasmato il pubblico del teatro dell’Elfo riproponendo i brani dei minimalisti storici ma anche dei loro interessanti epigoni come Devonté Hynes
«L’emozione del tempo è precisamente ciò che per noi è il tempo. Il tempo siamo noi.» Mi immagino che se mi trovassi nel mezzo di una discussione con persone sconosciute e qualcuno se ne venisse fuori con una simile frase annuirei con fare accondiscendente pensando di trovarmi alle soglie di un insopportabile discorso pseudo-filosofico “alla Paulo Coelho”. Letta nel libro del fisico-scrittore Carlo Rovelli, la stessa frase suona più concreta e si sposa a meraviglia con la musica di MINIMALIA, concerto tenuto da Third Coast Percussion all’Elfo Puccini la sera di lunedì nell’ambito della rassegna di MITO.
I quattro percussionisti americani, cioè David Skidmore, Robert Dillon, Peter Martin e Sean Connors, infatti sono paladini del minimalismo: la musica intesa “come processo graduale” che secondo le parole di Brian Eno altro non è che «un allontanarsi dalla narrazione in favore del paesaggio, dall’evento della performance allo spazio sonoro». Una musica in cui la percezione del tempo viene stravolta – dilatata per la precisione – e la linea retta temporale (da A a B, come ci hanno insegnato fin da bambini) che descrive benissimo la narrativa della tradizione musicale occidentale si trasforma in una spirale il cui inizio e la cui fine appaiono momenti arbitrari di un flusso infinito di cui si sceglie di isolare una parte. Un po’ come è costretto a fare il fotografo che, posto ipoteticamente di fronte a un’infinita prateria, si trova costretto a dargli dei limiti artificiali che naturalmente non avrebbe.
Questa volta (e parliamo del concerto) tra l’altro sono stati mostrati “paesaggi” che pochi avevano avuto modo di vedere prima (se mi è concesso l’abuso della metafora). I brani presentati sono per la maggior parte prime esecuzioni europee e i compositori in programma non sono soltanto i venerati padri del genere (Glass e Reich in buona sostanza) ma anche autori da scoprire come Devonté Hynes, meglio noto al grande pubblico come Blood Orange. La serata è ispirata per la maggior parte all’ultimo album che l’ensemble ha fatto uscire e che prende il nome da un nuovo brano commissionato a Philip Glass proprio per Third Coast Percussion, Perpetulum, che è anche il pezzo che ha chiuso la prima metà del concerto, quella dedicata ai grandi maestri. In sala i pareri tra il pubblico sono stati contrastanti, divisi tra chi ha rivisto in questo brano l’amato Glass giocare e divertirsi con l’infinità di timbri differenti che offre il mondo delle percussioni e chi invece ha seguito con difficoltà il susseguirsi di idee all’apparenza eterogenee e sconnesse.
Purtroppo, come lo scrittore Philip K. Dick diventò suo malgrado romanziere di fantascienza e si trovò per sempre legato a questo genere da semplici quanto stringenti regole di mercato, lo stesso sembra per Glass. E’ difficile resistere alla tentazione di chiedersi cosa avesse composto se non fosse stato rinchiuso dentro il proprio personaggio.
Tra un brano e l’altro, eseguiti con marimbe, vibrafoni, wood block, tamburello, tastiere, gong e perfino pettini di legno, David Skidmore, coordinatore del gruppo, presenta gli ascolti con un forte accento americano e un’espressione timida come quella di un bambino alla prima recita scolastica. In uno di questi interventi ha raccontato di come all’edizione di MITO di tre anni fa avessero portato il celebre Sextet di Reich e questa volta invece avessero optato per il meno eseguito Mallet Quartet in tre movimenti, di cui il centrale, rarefatto, sorprende per l’originalità. Oltre che in questo brano, la frase di Rovelli si comprende appieno ascoltando nel secondo tempoThe Other Side of the River dell’inglese Gavin Bryar. L’ipnotica ripetitività e i tempi dilatati di questa musica portano realmente dei cambiamenti alla nostra percezione dello scorrere del tempo, che ci sembra all’improvviso più raffinato, come mi immagino sia quello di una farfalla, la cui breve vita di ventiquattro ore deve sembrarle lunga quanto la nostra, lunga decenni.
«Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro.» Giungono Adamo ed Eva e poi la storia si fa interessante. Diciamo pure che i pezzi più appassionanti della serata sono quelli scritti dalle generazioni più giovani, quelle nate dopo il “settimo giorno”, Devonté Hynes e David Skidmore. Gli approcci pur così diversi come possono essere quelli di un musicista R&B inglese e un percussionista americano hanno un comune denominatore, la semplicità. Scevri di faziose ambizioni e accomunati da un apparente pragmatismo, entrambi hanno partorito brani semplici ma efficaci. Il termine così generico rispecchia la globalità dell’impressione, il feeling verrebbe da dire. Sia l’aspetto melodico e armonico che quello timbrico e perfino la forma di questi brani sono riusciti. I due pezzi di Skidmore fanno parte di un ciclo di sette, Aliens with Extraordinary Abilities, registrati nell’ultimo album dell’ensemble mentre ne hanno annunciato uno futuro dedicato esclusivamente alla musica di Hynes.
E come nella migliore delle tradizioni il concerto è finito con due bis memorabili e la timida, tenera presentazione di Skidmore «Ancora un altro brano… anche di me». Donner ha infuocato gli animi prima che tornassimo a casa con la testa piena di musica.