Carrozzeria Orfeo torna all’Elfo Puccini con lo spettacolo forse più maturo, e prova a rispondere alla domanda più difficile: cosa ci si può aspettare quando tutto sembra perduto?
FOTO © LAILA POZZO
Secondo Albert Camus, Sisifo non sa di dover spingere un masso che non riuscirà a portare in cima. Altrimenti, perché farlo. Lo sa chi osserva – come noi – dall’esterno di una consapevolezza cinica o chi, come Dante, dall’alto di un sistema di valori apparentemente inattaccabile, fa della proverbiale fatica inutile una spietata pena del suo inferno. Ma se quel sistema di valori manca, i nostri occhi di spettatori possono solo augurarsi che Sisifo, oggi, non abbia il volto del nostro tempo. Altrimenti, con una – eloquente – esplosione di liquami fognari fuori dalla porta – che sforzo inutile sarebbe, quello di Plinio che ha perso il suo ristorante e si trova costretto a cucinare pasti precotti per celiaci nel fondo riadattato di una carrozzeria. Che stupida illusione sarebbe, quella di sua moglie Clara, di passare da lavapiatti a imprenditrice a colpi di stories su Instagram. Avrebbe davvero senso cercare di convincere Cesare – professore di scuola media e aspirante suicida, a restare vivo?
Parte da qui Miracoli Metropolitani, il nuovo lavoro di Carrozzeria Orfeo che tiene banco per quasi un mese sul palco del Teatro Elfo Puccini, più forte anche della pandemia. È un ritorno alla cifra per cui la compagnia ha imparato a farsi amare: un divertito e brutale specchio del nostro presente. Ci siamo tutti, c’è il nostro tempo, e l’intero campionario dei suoi fallimenti. Mentre fuori le fogne debordano un fascismo razzista e xenofobo ha preso il potere e cerca casa per casa gli indesiderati.
Dentro, invece, nel solo spazio di risulta salvato – per ora – alla totale impraticabilià, accanto alla frustrazione dal Plinio di Federico Vanni, chef stellato un giorno e forse arreso cuciniere dall’eloquio grezzo e alla fame di riscatto di Clara – incarnata da una ottima Beatrice Schiros, ruvida e insieme ingenua, c’è uno specchio per ciascuno: il carcerato che sogna di fare l’attore e tenta inutili provini mentre porta le consegne – Aleph Viola fotografa in modo meno grottesco di quanto piacerebbe ammettere la quotidianità di chi fa il suo mestiere – e Hope, un’ottima Ambra Chiariello, lavapiatti etiope che conosce troppo bene la carità pelosa di un mondo che ama le storie tragiche – ma in cui un professore universitario libanese diventa rider – per non sfruttarne ipocrisie a proprio vantaggio. Nella (ormai abituale) messinscena ritmata, fresca e zeppa di colpi di scena si snoda una carrellata di vocazioni al fallimento e promesse mancate che tocca sempre dove fa più male, senza risparmiare nessuno.
Non ci si salva con l’età: Sebastiano Bronzato è Igor, figlio diciannovenne di Clara, vittima della più classica madre iperprotettiva e di una società che lo vuole adatto a un mondo da cui lui sa solo scappare nei videogiochi, covando il proprio odio per chiunque possa fare da capro espiatorio: al suo interprete, Sebastiano Bronzato, nota di merito per aver preso ben possesso della parte – causa covid – in appena quarantotto ore: un miracolo, val la pena di dirlo. Ma in questo quadro di desolante sincerità non ci salvano neanche gli ideali, e la madre di Plinio, Patti – una credibilissima Elsa Bassi – è la femminista e di sinistra ormai diventata la caricatura di se stessa fuori tempo massimo, incapace, nel suo desiderio di salvare il mondo, di leggere lo sfacelo a cui il suo micromondo è già andato incontro. Sono questi gli ingredienti di cui è composta la ricetta dello spettacolo di Carrozzeria Orfeo che meglio ha saputo dosare le quantità, in un equilibrio drammaturgico molto preciso.
Così la comicità della compagnia, anziché sboccata, trova piuttosto la lingua reale, fosse anche greve, attraverso cui la realtà – non ancora reale, me tragicamente verosimile – racconta se stessa. Così si sorride dei propri mostri, e se si ride lo si fa per illudersi di scacciarli. Anche il cosiddetto politicamente scorretto, cifra della compagnia, qui diventa più espressamente politico – e mai retorico – in una descrizione spietata in cui persino la distopia sembra superata – o almeno affiancata – dalla realtà. E allora, come poter sparigliare ancora una volta le carte? Superando una nuova paura, quella per i buoni sentimenti.
C’è spazio, in questo quadro di crollo delle illusioni, per la possibilità che germoglino miracoli, ancorché metropolitani? Del resto, scrive Sylvia Plath, “esistono i miracoli, se siamo disposti a chiamare miracoli quegli spasmodici trucchi di radianza”, se si può chiamare miracolo quel fenomeno reale della coscienza che induce ancora a fare quella che consideriamo la cosa giusta, al punto di sacrificare persino se stessi per qualcosa che ci illuda di valerne la pena? Carrozzeria Orfeo, nella sua densissima drammaturgia a firma Gabriele di Luca, con la regia tripartita di Di Luca, Setti e Tedeschi, che dà l’impressione di una bella, lunga corsa (sono due ore e mezza) mai affannosa e mai pesante, riesce a rompere ancora gli schemi mettendo in campo i sentimenti. Sisifo trova così il motivo della sua fatica. Il suo masso continuerà, inesorabilmente, a cadere, ma l’individuo avrà, almeno, sfidato se stesso.
Tutto e bene quel che finisce bene? Troppo facile. Troppo comodo confidare – davvero – nei miracoli, nell’equilibrio dell’universo che riporta la giustizia. In quello che è il testo più omogeneo e forse meglio riuscito di Carrozzeria Orfeo, sarebbe un finale decisamente facile. Invece, sentimento non significa, mai, sentimentalismo. Il miracolo, in questo presente senza appigli, non ha più a che fare con una qualche entità che compensa con magnanimità sofferenze e dolori. Se nessuna ideale, né idea, ci protegge più, non resta che sperare in quell’ultimo, improvviso, istante di radianza, che ha qualcosa di molto vicino a una, concretissima, speranza. Ammesso e non concesso che si abbia la possibilità – o ancora meglio, la volontà – di coglierlo.