“Moby Dick alla prova” di Welles rinasce in questi giorni fino al 6 febbraio sul palco del Teatro dell’Elfo, comprodotto con lo Stabile di Torino. Un kolossal che mette alla prova la straordinaria bravura bifronte di Elio De Capitani e la poetica del suo teatro
FOTO © MARCELLA FOCCARDI
Siamo in un teatro americano alla fine dell’Ottocento. Inizia così la riduzione che Orson Welles fece nel 1955 del Moby Dick che debuttò in versione teatrale a Londra, versi sciolti dal capolavoro di Melville. A quest’operazione a prima vista impossibile (a New York in seguito fu un flop), Welles forse pensava già da prima: Paolo Mereghetti, nell’introduzione al testo pubblicato nelle edizioni Italo Svevo fa notare che il 91mo capitolo del romanzo è intitolato da Melville Il Pequod incontra il Rose-bud e tutti sanno che Quarto potere chiude con la misteriosa battuta “Rosebud”, diventata in italiano Rosabella.
Ma c’è di più, Welles per affrontare l’impossibile impresa di mettere in scena l’acqua, l’oceano in tempesta, il capodoglio assassino e la ricerca di Achab contro il destino, prende alle radici le categorie del palcoscenico. E, appuntando i nomi di Brecht e Pirandello senza cui nulla del teatro d’oggi avrebbe senso, s’inventa una compagnia che prova come nei Sei personaggi e un’azione drammatica che si sdoppia sempre tra attore e personaggio, con attori che hanno più ruoli e una ragazzina nella parte del moccioso mozzo nero.
Nasce così, in una scena vuota che sarà poi agitata da un enorme telone nella parte dell’oceano (ricordi di mari e tempeste alla Strehler), Moby Dick alla prova di Welles, capolavoro drammaturgico che rinasce in questi giorni fino al 6 febbraio sul palco del Teatro dell’Elfo, coprodotto con lo Stabile di Torino, che da due anni prova, in un continuo stop and go, questo kolossal che mette alla prova la straordinaria bravura bifronte di Elio De Capitani attore e regista e tutta la poetica di un teatro che l’ha saputa costruire con tanti giovani.
E ora la gioca, la punta per intero in questa gigantesca sfida al grande romanzo americano che neppure John Huston nel ’55 seppe far proprio: Welles faceva il predicatore nel prologo, oltre alla star Gregory Peck e Richard Basehart, appena uscito dalla Strada felliniana. Lo spettacolo dell’Elfo funziona come un cuore di tenebra perché riesce ad essere colossale ed intimista insieme ed infatti durante l’azione sulla nave con Ishmael che è l’attore giovane e sarà l’unico sopravvissuto che ci può raccontare la tragica storia, si ammira Achab, la forza della lotta contro il Male degno di una tragedia greca, ma però, come per un incantesimo poetico, si pensa anche al Lear, di cui abbiamo visto all’inizio con la compagnia, alcune prove.
Nella scena in cui Achab culla il mozzo, attendendo beckettianamente la balena bianca (che però arriva…) sembra che abbia in braccio Cordelia. Ma tutto l’allestimento, anche nelle difficili soluzioni acquatiche, ha una sua funzione e una sua etica teatrale che non è soltanto una ben risolta serie di esigenze tecniche. Non ci sono computer né grafici né video in questo Moby Dick, ma lavoro, fatica, mani e ombre che si stagliano su orizzonti dipinti, fra luci e canti, gli Sea shanties che con la loro eco rimbalzavano sull’acqua come canti marinareschi a cappella. E diluito in due tempi per un totale di due ore e mezzo, il testo di Melville chiarisce la sua natura di avventura e di apologo sul senso della vita e della lotta tra Bene e Male, che si porta dietro quell’ineluttabilità del destino che chiude tra le onde gli sforzi disumani di Achab, un Ulisse di ritorno.
La scena, popolosa ma disadorna, diventa proprio quella Magnifica ossessione (titolo rubato al mélo di Sirk) che il romanzo di Melville era diventato per Welles, che iniziò a girarne anche una parte per un film ovviamente mai finito e oggi, complice l’eternità del capolavori, anche di De Capitani e del suo magnifico, entusiasta, complice gruppo di attori. La prosa del romanzo vira senza parere verso la poesia (i versi sciolti…) con la forza immaginifica del romanziere e gli sforzi del grande artigianato teatrale che evoca i suoi rintocchi come teatro, pittura, musica: insomma, illusione.
Un gran esempio di meta teatro che solca due mari in cerca del bianco pescecane, mentre scoppia una tempesta che non ha nulla da invidiare a quella che colpisce il povero vecchio Lear nel bosco, entrambi sono pedine di un gioco crudele di potere e vendetta mentre in scena vediamo sgabelli, banconi, scale, pedane avvolti in luci plumbee, così come i costumi dark di Ferdinando Bruni. Immaginiamo i gabbiani, il fragore delle onde, i colori del temporale e la potenza delle tenebre, come ci aveva consigliato di fare il capocomico pirandelliano.
Elio De Capitani racchiude in sé tutte queste suggestioni, pronto l’anno venturo a fare davvero il Lear, magari con una compagnia che finge di provare Moby Dick. Tutti i suoi compagni sono un fluire di intenzioni e di sintonie: Cristina Crippa, Angelo di Genio strepitoso e misurato testimone di una auto distruzione, Ishmael, Marco Bonadei (ha inventato strane maschere che permettono il gioco del teatro anche in pandemia), Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcari). Lo spettacolo, applauditissimo, è affettuosamente dedicato al regista Gigi Dall’Aglio che aveva a lungo inseguito la verità e l’eternità del messaggio teatrale.