Nelle sabbie mobili del presente per affondare in un passato prossimo misterioso ed esotico.: un estenuante e affascinate gioco di specchi
Un giubbotto giallo spunta tra la folla del metrò ed in Thérèse, il passato riemerge con tutta la sua gravità. Alla stazione Chatelet è l’ora di punta, quando una donna che scivola sul tapis roulant assieme ad altri sconosciuti, cattura la sua attenzione. E’ quell’abito giallo, ora sbiadito dal tempo. Le fa venire in mente una fotografia. Una delle poche immagini che conserva della madre. Quella madre che sempre assente, un giorno l’ha abbandonata. Lasciandole poche cose: un quadro, una fotografia , un agenda e quel buffo soprannome, “Bijou”. Ora a distanza di anni, quella donna che credeva morta in Marocco è di nuovo lì. La osserva parlare al telefono dietro al vetro di una cabina telefonica. La insegue fin dentro un bar. Sono solo i primi atti di un pedinamento che si prolungherà fino ad una zona della periferia di Parigi, di fronte ad un palazzo alto e scuro, in cui la misteriosa donna abita.
Il lettore farà presto ad accorgersi che in Bijou il presente ha la consistenza delle sabbie mobili. Ad ogni passo, ad ogni scorcio della città, la protagonista affonda in un passato che sembrava essersi ormai chiuso. I dolori e le solitudini dell’infanzia riaffiorano, si ripetono con una precisione chirurgica e spietata. Ed è in questo estenuante gioco di specchi in cui la vita presente richiama continuamente a quella passata, che si manifesta felicemente il tratto distintivo della narrativa di Patrick Modiano. La sua cifra stilistica. Quella capacità di far vivere al lettore i precipizi e le vertigini della memoria. Bijou è un romanzo riflessivo. Eppure anche un romanzo da consumarsi in fretta. Perché è breve, certo, come molte delle opere del recente Nobel (del quale in questo stesso numero di CultWeek recensiamo Nel caffé della gioventù perduta). Ma soprattutto perché non manca di una certa velocità. Di un ritmo quasi da giallo. Merito di quel periodare, sempre conciso e tagliente attraverso cui i ricordi irrompono con la stessa forza ed intensità di un colpo di scena.
E poi la prosa sempre contenuta, equilibrata e a tratti vicino alla poesia; qualcosa di davvero piacevole. Lo scrittore con pochi mezzi, evoca paesaggi che si distaccano dall’atmosfera tetra in cui tutta la storia è immersa. Come per esempio, quando ci viene presentato Moreau- Badmaev, l’interprete che conosce più di venti lingue. Tra queste, una lingua particolare, il persiano delle praterie che Modiano per bocca della sua protagonista, impressionata da tanta conoscenza, descrive così: «Continuava a parlarmi del persiano delle praterie. Quella lingua, diceva, assomigliava al finlandese. Era così piacevole da ascoltare. Ci si ritrovava la carezza del vento tra l’erba ed il rumore lontano delle cascate». Il libro è ricco di passaggi simili in cui la scrittura di Modiano si rivela per quella che è. Essenziale ed efficace. In grado di aprire, con poche parole, ampi spazi all’immaginazione. Ma è una tregua stilistica di cui può beneficiare soltanto il lettore e non la protagonista. Therese infatti, è vulnerabile. Continuamente in balìa di una storia, quella tra lei e la madre, da cui cerca di fuggire e da cui si ritrova fatalmente perseguitata ed attratta.
E così non rimane che un atto di sopravvivenza, l’unica via fuga nei confronti di un passato che annienta ed inghiotte il presente. Un gesto che arriva quasi per istinto. A metà della storia, Thérèse si trova finalmente di fronte alla porta di casa della madre. Vorrebbe bussare. Vorrebbe affrontarla. Ma è indecisa e vacilla. Alla fine si tira indietro e va via. E sarà proprio in questo atto di rifiuto, in questa mancanza di coraggio che consisterà la sua vittoria. L’inizio di una lenta e timida rinascita.
“Bijou” di Patrick Modiano (Einaudi, pp. 136, 14 euro)