Ha aperto la 77ma Mostra del cinema il nuovo film del bravo regista e documentarista veneto che rievoca la figura del padre, studioso di particelle atomiche. Un documentario interiore sulla scena di una Venezia inedita e splendida al tempo della pandemia
Sono tre gli elementi, gli atomi si potrebbe dire, seguendo la metafora scientifica che ha portato Andrea Segre a chiamare il suo ultimo lavoro Molecole, alla base di questo breve (68 minuti), intenso, prezioso film. Due sono già racchiusi nel titolo, che allude ai momenti di una vita e di una relazione, la sua con il padre chimico/fisico, studioso del comportamento delle molecole appunto – desiderata, cercata, mai risolta, e insieme alle particelle portatrici del Covid 19, che hanno infettato nel mondo circa 26 milioni di persone uccidendone quasi 900 mila. Terzo e altrettanto importante tema, che ha contribuito a farne in questi giorni il film di pre-apertura della Mostra del cinema n. 77, è il suo rapporto con Venezia: che non è esattamente la città della vita, come spiega l’autore nel film, nonostante ci sia nato molto vicino (a Dolo) e vissuto per alcuni anni, perché poi, se n’è andato prima, molto giovane, a vivere con la famiglia a Padova, poi a studiare a Bologna, infine a fare del cinema a Roma.
Ed è a Venezia che il lockdown di fine febbraio l’ha colto, con la compagna e la piccola deliziosa Dafni, nella bella casa di uno zio in cui aveva abitato nel passato, intento a lavorare a due progetti, un lavoro sull’acqua alta che mescolerà scena e cinema (debutto al Teatro Goldoni nel marzo 2021), e un film su tre fratelli pescatori di moeche (i granchi verdi in fase di muta usati nella cucina veneta) che litigano perché uno di loro vuol trasformare in B&B la casa di famiglia. Ma la sua curiosità di cineasta del reale e del sociale, che sulla vita in Laguna è tornato più volte regalandoci prima il racconto delicato de Il sono Lì (2012), poi lo scorso anno Il pianeta in mare, documentario potente sul lavoro multietnico a Porto Marghera, non poteva che spingerlo a cogliere l’opportunità di raccontare quasi in diretta la sua città di ri/elezione trasformata dalla pandemia, e fin dalle prime immagini di Molecole, mostrata un po’ misteriosa, spesso a lui lontana, poco leggibile.
L’occasione, poi, stavolta era doppia: riprendere la piazza forse più sognata, fotografata del mondo, San Marco, deserta di umani e abitata solo da gabbiani e piccioni sconvolti dalla fame generata dalla scomparsa dei turisti, abbinando queste immagini di forte impatto realistico e metaforico al tempo stesso a quelle non meno potenti della città sommersa dall’acqua alta di fine 2019, anche quella tristemente da record. Un evento che, nelle riflessioni dei molti e per diverse ragioni qualificati interlocutori del film, rimanda non meno che la pandemia del 2020 a un’idea di mondo perduto, a una città-gioiello unica in cui oggi quasi non si può più vivere e che forse, in futuro, si potrà solo, con il cuore immensamente triste, abbandonare.
Ma in questa Venezia svuotata dai turisti, spettrale e meravigliosa, finalmente si può condurre una barca a remi senza l’ostacolo delle onde dei vaporini per tutti e dei taxi per ricchi, e girare spensierati e felici in Laguna, per ammirare in silenziosa solitudine le straordinarie chiese del Palladio (San Giorgio, il Redentore) e del Longhena, prima fra tutte Santa Maria della Salute, costruita fra metà e fine XVII secolo come ex voto per un’altra pandemia, la peste nera che in città fece quasi 50mila morti (su 142mila abitanti) e altrettanti nelle isole tra Murano, Chioggia e Malamocco. Nel film ci aggiriamo con la barca di Giulia, figura quasi mitica di veneziana resistente che s’è inventata il mestiere di insegnare a vogare ai turisti, quando c’erano, e ora ci accompagna in tragitti preziosi illuminati dal cinema.
Molecole però è anche un film raccolto, privato, il cui filo narrativo nasce da una lettera scritta dall’oggi 46enne Segre al padre dieci anni fa, prima che morisse, in cui affiorano domande cadute nel silenzio, che restano vive solo nei suoi ricordi, legate al mestiere di scienziato di Ulderico, impegnato per tutta la vita a indagare, spesso in uno studio inaccessibile al figlio, il comportamento dei radicali liberi prodotti dal metabolismo dell’ossigeno, i cui elettroni sono spaiati e tendono ad avvicinarsi ad altri analoghi. Come noi stessi facciamo in analoghe condizioni. Un parallelismo tra solitudine umana e struttura della materia, progettualità dell’individuo ed eventi esterni, incontrollabili come il Covid 19. Si potrebbe anche aggiungere che gli strumenti di difesa che ci siamo dati, mascherine, distanziamento sociale, sempre più ci allontanano degli altri, smentendo l’istinto sociale di creature umane e radicali liberi.
“Questo è un film sulla meraviglia, sull’assurdo e sulla fragilità”, ha spiegato Segre a Venezia, salutando con entusiasmo la scelta di confermare, nonostante la pandemia, la Mostra in Laguna come un segnale di speranza nel futuro del cinema da consumare insieme in sala. Lui è un ottimo esempio di cineasta che sa raccontare grandi eventi collettivi senza perdere di vista le traiettorie individuali, sia che la vena principale sia la fiction (come in Io sono Lì) sia che, al contrario, prevalga un racconto più oggettivo sulle cose, gli eventi, come accade stavolta. Salvo che qui la forte spinta autobiografica, il desiderio di sfogliare l’album dei ricordi, anche audiovisivi “grazie ai filmati in Super8 di mio padre”, modella poi il racconto sui toni poetici del documentario interiore, sottolineati dalle musiche perfette di Teho Teardo: e l’abbondanza delle parole fuori campo si confronta con il ritmo delle immagini, silenzioso come la città che sta riprendendo.
L’assenza del padre, in vita e ovviamente ancor più dopo, è evocata di continuo. Se il rapporto con lui, segnato da una malattia non rimediabile, come appare quella socio-urbanistica di Venezia, era fatto più di silenzi che di parole, Segre sceglie come immagine iconica del suo racconto una bellissima foto di sé bambino nelle braccia di Ulderico, che tenta un selfie ante-litteram giocando con uno specchio. Ricorda un po’ il primo Godard che si diverte a maneggiare la pellicola. Un frame familiare nella sua fissità, diventa mobilissimo dispositivo filmico e rimanda a una realtà lontana nel tempo, evocando insieme il mondo di simboli che hanno attraversato la vita di un padre e di un figlio.
Molecole, film documentario di Andrea Segre