In “September 5” del regista svizzero Tim Fehlbaum torna il tragico sequestro di allenatori e atleti israeliani presi in ostaggio dall’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero. Il tutto finì con una strage di colpevoli e vittime, seguita alla sparatoria mal gestita dalla polizia tedesca. Sotto inchiesta finì anche la tv che dava tutte le notizie, consentendo di conoscere le mosse degli agenti pronti a intervenire. Un film teso e claustrofobico, in cui si può misurare la distanza col mondo d’oggi, che in primo luogo sui media è un mix di vero e falso, notizie e manipolazioni quasi indistinguibili
1972, Monaco di Baviera, Germania Ovest. Le olimpiadi iniziate il 26 agosto si stanno avviando verso le ultime battute, il nuotatore americano Mark Spitz sta vincendo una medaglia d’oro dopo l’altra e tutto sembra svolgersi nel migliore dei modi. La Germania voleva dimostrare al mondo di essersi lasciata definitivamente alle spalle il passato nazista e la guerra, e sembra proprio che ci stia riuscendo nella prima edizione dei giochi olimpici su suolo tedesco dopo quella del 1936 a Berlino, in pieno regime hitleriano. Ma all’alba del 5 settembre cambia tutto: un commando di terroristi palestinesi penetra all’interno del villaggio olimpico e fa irruzione nella palazzina numero 31, quella che ospita la delegazione israeliana. Un allenatore e un atleta vengono subito uccisi, due atleti riescono a fuggire e a dare l’allarme, nove ostaggi rimangono fino a sera in mano ai terroristi di Settembre nero, che in cambio della loro vita chiedono il rilascio di 234 combattenti palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Finirà malissimo, con una strage all’aeroporto di Fürstenfeldbruck, a circa 20 km da Monaco, dove ostaggi e terroristi avrebbero dovuto imbarcarsi su un aereo diretto in Medio Oriente, e dove troveranno invece quasi tutti la morte in una drammatica sparatoria che conclude nel modo peggiore una fallimentare operazione di polizia.
Una storia tragica e a suo modo esemplare, già più volte raccontata al cinema (da Steven Spielberg in Munich, per esempio, e da Kevin Macdonald nel documentario Un giorno a settembre), che in September 5 del regista svizzero Tim Fehlbaum viene però messa in scena da un punto di vista decisamente inedito: quello dei giornalisti e dei tecnici che stavano seguendo i giochi olimpici per la rete televisiva americana ABC e si ritrovarono, da un momento all’altro, catapultati in mezzo alla tragedia, in prima linea, in diretta e senza filtri, senza sapere bene come affrontare la cosa, né da un punto di vista tecnico, né tantomeno da un punto di vista etico.
Il giovane produttore esecutivo Geoffrey Mason (John Magaro), il dirigente televisivo Roone Arledge (Peter Sarsgaard), l’interprete tedesca Marianne (Leonie Benesch) e tutti gli altri colleghi si ritrovano a raccontare una tragedia in diretta, ma soprattutto a trasformarla (forse non del tutto consapevolmente, almeno all’inizio) nel primo grande evento mediatico della storia. Atterraggio sulla Luna a parte. Novecento milioni di persone in tutto il mondo seguiranno quella diretta, vedranno il terrorista col passamontagna nero sporgersi dal balcone (un’immagine celeberrima, di quelle che ora definiamo iconiche), palpiteranno per il destino degli ostaggi, faticheranno a decifrare esattamente il senso di quello che stanno vedendo. Proprio come i giornalisti, che raccontano la storia nel momento esatto in cui la storia accade, senza sapere come andrà a finire e contribuendo (loro malgrado) a farla, quella storia.
Fra le tante polemiche di quei giorni, insieme alle accuse alla polizia tedesca di aver gestito nel modo peggiore l’emergenza, ci fu in effetti anche quella che coinvolse il ruolo della stampa e dell’informazione. Da due diversi punti di vista: l’eco mediatico enorme dato agli eventi poteva sembrare un oggettivo aiuto alla causa dei terroristi; ma ancor più pericolosa poteva rivelarsi la scelta di mostrare le immagini, in tempo reale, dei tentativi dei poliziotti di penetrare nella palazzina 31, perché quelle immagini erano ben visibili anche ai terroristi che in quella palazzina erano asserragliati.
Tim Fehlbaum e lo sceneggiatore tedesco Moritz Binder hanno sicuramente presente il modello del grande cinema politico americano che non si tira indietro davanti ai dilemmi etici ma non disdegna l’uso dei meccanismi di suspense tipici del genere thriller (da Alan Pakula di Tutti gli uomini del presidente al Ron Howard di Frost/Nixon – Il duello). Scelgono così di lasciare gli eventi fuoricampo e concentrare l’attenzione su quello che succede dentro gli studi della ABC, descrivendo una sorta di trincea dove il fare informazione (in un’epoca in cui il digitale era ancora di là da venire) è anche una questione fisica, talora faticosissima per gli spazi ristretti, i movimenti frenetici, gli spostamenti estenuanti, le decisioni da prendere in fretta e che altrettanto in fretta possono dimostrarsi sbagliate. Un film teso e claustrofobico, destabilizzante, angosciante, perfettamente riuscito, grazie anche a un ottimo cast (dove spiccano Magaro, Sarsgaard, Ben Chaplin, Benesch). Una visione di grande interesse in questa nostra epoca digitale dove il confine tra vero e falso, autentico e manipolato si sta facendo sempre più pericolosamente ambiguo e scivoloso.
September 5 – La diretta che cambiò la storia, di Tim Fehlbaum, con Peter Sarsgaard, John Magaro, Ben Chaplin, Leonie Benesch, Zinedine Soualem