Il film di César Augusto Acevedo, Camera d’Or a Cannes 2015, racconta drammi sociali e familiari di una realtà che subisce un “progresso”, povero e malato
Il 2015 è un anno decisamente positivo per il cinema latino-americano in Italia. La recente “doppietta” di Leoni al Festival di Venezia, d’oro per Desdè Allà del venezuelano Lorenzo Vigas e d’argento per The Club dell’argentino Pablo Trapero, poi acquistati anche dai nostri distributori, ha senza dubbio rilanciato la produzione di qualità di un cine-continente raramente in primo piano nelle nostre sale. Anche se la stagione scorsa si era ben conclusa con il bellissimo film di denuncia guatemalteco Vulcano-Ixcanul di Jayro Bustamante e la commedia più leggera, ma niente affatto d’evasione, È arrivata mia figlia della brasiliana Anna Muylaert.
In attesa di sapere se vedremo anche in Italia l’interessante Allende, mi abuelo Allende, documentario politico-familiare di Marcia Tambutti, nipote del mitico presidente cileno, premiato a Cannes, approda subito nei cinema, forte della vittoria della prestigiosa Camera d’Or di Cannes 2015, Un mondo fragile del giovane colombiano César Augusto Acevedo, al secondo film come sceneggiatore e al debutto assoluto come regista.
Premio più che meritato perché Acevedo, oltre a padroneggiare con equilibrio una serie di drammi familiari che in altre, meno sensibili mani, avrebbero potuto sconfinare nella telenovela (la morte del figlio, l’abbandono del paese natio, il ritorno, il definitivo esilio da una terra invivibile), evidenzia sullo sfondo una serie di tematiche sociali forti e che coinvolgono milioni di persone: per prima la dittatura della monocultura nell’economia di una terra (qui la canna da zucchero in Colombia, situazione simile a molti altri paesi latino-americani), che si porta dietro realtà di selvaggio sfruttamento dei tagliatori e incendi provocati per facilitare la raccolta delle piante, in una combinazione mefitica per la salute di lavoratori e abitanti. E per l’integrità di un ambiente splendido che ne esce stravolto, semi-distrutto.
Alfonso, anziano contadino, torna dopo 17 anni nella sua piccola casa in campagna che ha lasciato perché la sua vita lì stava diventando impossibile, per accudire il figlio Gerardo, gravemente malato. Ritrova la donna che era un tempo la sua sposa e ora lo odia per la sua “fuga”, la giovane nuora, il nipote che non ha mai conosciuto. E un paesaggio apocalittico: enormi piantagioni di canna da zucchero circondano la casa e un’incessante pioggia di cenere, provocata dai continui incendi dolosi, si abbatte su di loro. L’unica speranza è andare via di nuovo, e stavolta tutti uniti, ma il forte attaccamento a quella terra rende le cose più difficili. E quando decideranno per un’amara salvezza sarà in parte troppo tardi.
Acevedo, 28 anni, una tesi di laurea in comunicazione all’università di Calì che era poi la sceneggiatura di questo film, dimostra di saper maneggiare la cinepresa con fantasia e inventiva, sfruttando la natura sul piano visivo e sonoro molto bene, almeno quanto i suoi attori non professionisti. Trovati, spiega lui, nella regione dove ha girato, la sua, la Valle del Cauca «perché ci doveva essere una verità nei loro corpi, volevo che si sentisse la durezza del lavoro sulla loro pelle. I 5 protagonisti non hanno letto la sceneggiatura, volevo che vivessero i personaggi cercando una connessione emotiva, come se dovessero davvero diventare una famiglia». In un film che è anche un atto d’amore verso la sua famiglia, «un ritorno alle origini contro l’inevitabile oblio delle persone che mi sono più care».
E intorno a quella casa povera, luogo che unisce e divide genitori e figli, intorno al quel bellissimo albero della pioggia (che evoca perfino Tarkovskij) soffocato dai campi di canna, danza la cinepresa, tra dolly e panoramiche, a raccontare valori e conflitti universali, l’attaccamento alla terra, alla famiglia, la necessità di sopravvivere. Uno spazio visivo duro e sincero (bravissimo anche l’operatore Mateo Guzman) che può ricordare alcune immagini di Sebastião Salgado.