“La sirena di Black Conch”: fatevi raccontare una fiaba piena di verità.

In Letteratura

Insomma, chi è più mostruoso: l’essere che visto da terra non condivide un corpo bipede, o il mondo dei bipedi che, acciuffata la creatura per le pinne, ne fa strazio senza nemmeno capirne il perché? Monique Roffey torna su un mito antico e pervasivo, di cui mostra, nella sua versione riveduta e aggiornata, tutta la carica di necessaria vertenza etica e sociale. Così ammalia, “La sirena di Black Conch”: e alla lettura ci restituisce domande feroci e inquietanti. Pensavamo davvero di essere immuni dalle fiabe? Ma via…

Monique Roffey fa rivivere uno dei miti più irresistibili nel suo ultimo romanzo: La sirena di Black Conch. La sfida è quella di ambientarlo ai giorni nostri e di renderlo credibile, il piacere è quello di lasciarsi andare al racconto del mito della donna pesce, al cui fascino nessuno resiste.


Nel 1976 una sirena compare misteriosamente in un’isoletta sperduta dei Caraibi, Black Conch appunto e scatena amori e persecuzioni.
Di sirene ne abbiamo tutti sentito parlare, di solito preferiamo immaginarle di una bellezza irresistibile e dotate di un canto che trascina alla rovina, finendo un po’ per sovrapporre alla loro immagine il prototipo della belle dame sans merci del decadentismo, che ha il suo antenato naturalmente nell’incontro di Ulisse con le sirene in Omero. Perfino Cristoforo Colombo nel suo Diario di bordo racconta di averne intraviste due o tre volte, anche se afferma che “non erano affatto belle”.
È forse dalla poesia di Pablo Neruda Favola della sirena e degli ubriachi che Monique Roffey ha tratto ispirazione per la sua protagonista, Aycayia

Lei non sapeva piangere perciò non piangeva
Non sapeva vestirsi perciò non si vestiva
La tatuarono con sigarette e con turaccioli bruciati
Ridevano fino ad abbattersi sul pavimento della
Bettola.

Questa triste immagine richiama anche l’albatros nella Ballata del vecchio marinaio di Coleridge.
Ma La sirena di Black Conch è anche una bella storia d’amore con un coraggioso pescatore, David Baptiste, un po’ fricchettone e molto generoso, e la mitica, sfuggente Aycayia.
Lui se ne sta all’alba come tutti i giorni nella nascosta Murder Bay a gettare lenze e a strimpellare mica tanto bene la sua vecchia chitarra, quando

lei tirò su la testa incrostata di alghe e cirripedi dal mare piatto e grigio argento, le cui venature turchesi non erano ancora comparse. Così come se fosse normale, la sirena spuntò…

Quando David la vede, smette di suonare e lei si rituffa tra le onde. Da quel giorno l’aspetta, non riesce che a pensare a lei, è come irretito da un incantesimo; solo qualche settimana dopo, quando per consolarsi riprende a suonare, eccola che ricompare. In un’inversione del mito tradizionale è la modesta musica di lui ad attirare la sirena. Da allora i due si incontrano ogni giorno e Aycayia gli racconta la sua storia: secoli e secoli prima, a Cuba, era una fanciulla così bella che nessun uomo poteva resisterle, così le beghine invidiose le fecero un potente e terribile maleficio trasformandola per sempre in una sirena. Lei se ne era fuggita via e trascinata dalle calde correnti s’era rifugiata a Black Coach.
Qualcuno però si accorge dei loro incontri e ne parla a dei ricchi americani venuti lì per la pesca d’altura, i quali vengono presi da una cieca ossessione: tornare in California con una sirena per esibirla in tutti i locali fashion (e se muore, eventualmente, esibirla imbalsamata in salotto). Così i volgari e avidi pescatori inseguono di nascosto David e catturano Aycayia.
Ferita, torturata con cicche di sigaretta, insultata, viene appesa a dei pali , mentre gli orridi seviziatori si ubriacano dentro la taverna. Allora David, approfittando delle tenebre …
Adesso arriva la parte più bella della storia: e qui, ovviamente, la palla passa al lettore.

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