Come abbiamo fatto a trovare un Moretto a Milano? Una faccenda collettiva nella quale ognuno ha dato un contributo (e i soldi hanno fatto la loro parte)
Antefatto. A partire dalla mostra sui Luini che si è tenuta l’anno scorso a Palazzo Reale, all’interno del mio dipartimento ha cominciato a prendere forma un progetto di ricognizione e ripensamento del manierismo a Milano. Sotto la guida dei miei professori, Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, io e altri colleghi laureandi, specializzandi e dottorandi abbiamo cominciato a lavorare su questo tema.
Decido di occuparmi di un pittore sconosciuto ai più e, seguendone le tracce, mi trovo a dover mettere le mani in Santa Maria presso San Celso.
È una delle tante chiese, un tempo frequentatissime, che neanche i milanesi di nascita forse conoscono. Eppure si trova quasi alla fine di Corso Italia, Milano centro. Possiede un cantiere decorativo ricco e complesso, variamente toccato dagli studi ma ancora pieno di zone d’ombra.
Capisco che devo rimboccarmi le maniche e cercare di fare un po’ di ordine: per seguire le orme del mio pittore ho bisogno di illuminare il contesto, altrimenti non posso formulare delle ipotesi credibili. Sfoglio un po’ di bibliografia e mi accorgo di non ricordare poi tanto bene com’è fatta la chiesa, qual è la successione delle cappelle, quale pala sta su quale altare, e così via. Ho bisogno di tornarci per rinfrescare la memoria.
Quindi, in un piovoso pomeriggio di metà novembre, mi ritrovo a vagare a testa in su per Santa Maria presso San Celso, con un paio di fogli in mano. L’idea è abbastanza banale: parto dalla prima cappella, disegno uno schema semplificato della decorazione pittorica, segno i soggetti – quando li riconosco – e gli autori – quando li conosco – e proseguo fino a completare il giro.
Arrivato alla prima cappella a sinistra del retrocoro registro sul mio foglio l’arcinota presenza della Conversione di Saulo del Moretto, qualche dubbio sull’identificazione del busto di San Paolo della chiave di volta, e scarabocchio un promemoria descrittivo degli affreschi sulla volta: «Angeli con lunghe vesti, nastri, tabelle e strumenti musicali». Niente di più. Finisco il giro, torno a casa e copio i miei appunti a computer: ho una pessima calligrafia. Ripensando a quello che ho visto aggiungo: «Molto belli, non somigliano a quelli di nessun’altra volta, forse sono davvero di Moretto».
Ripensandoci ora, c’è un unico motivo per cui ho scritto così: ho letto il nome di Moretto in una delle tante guide antiche di Milano, nelle quali il pittore bresciano è spesso incluso fra gli artisti genericamente attivi nella decorazione ad affresco del retrocoro della chiesa. Da nessuna parte però avevo incontrato un’attribuzione chiara e tonda, semmai categoriche smentite.
Con quel nome in testa, nonostante la tremenda penombra che avvolge costantemente la chiesa, devo aver notato la qualità e il sapore veneto, maggiori che non negli altri frescanti – Cristoforo Bossi, Callisto Piazza e Carlo Urbino – e devo aver fatto il collegamento. Una volta scritto, l’appunto resta lì, e io passo a fare quello che mi riesce meglio: scartabellare.
Mi tuffo in archivio e comincio a far scorrere i documenti: ordinazioni capitolari, libri contabili, carte sciolte, testamenti, visite pastorali, inventari… a un certo punto incontro le note di pagamento per Moretto. 715 lire in tutto, «per pentura de una capella», scalate in un anticipo e in un saldo fra il 1540 e il 1541. Anche in questo caso, sul momento non ci ho pensato troppo: si tratta di documenti pubblicati e commentati più volte, che si riferiscono alla Conversione di Saulo.
Poi comincio a ricostruire la successione degli interventi decorativi nella chiesa e, a furia di rileggere i documenti, campata per campata, pittore per pittore, quando torno sui pagamenti a Moretto si accendono due spie di allarme. La somma è troppo alta per corrispondere alla liquidazione di una sola pala, e il termine capella – in questo contesto e a queste date – è polisemico.
Fra le diverse accezioni non è compresa quella di pala d’altare, mentre lo è quella di campata. Col senno di poi la soluzione è ovvia, ma sul momento gli indizi frullano in testa rifiutandosi di combaciare.
Torno in Santa Maria presso San Celso, stavolta con i professori e alcuni colleghi, per fare una piccola campagna fotografica resa possibile dal benestare del gentilissimo parroco, don Diego, e dall’ottima macchina fotografica fornita dall’Università Statale. Se non siete del settore vi sembrerà superfluo, ma per uno storico dell’arte disporre di buone fotografie è fondamentale. Arrivati all’ottava campata si rinnova l’impressione che gli affreschi siano molto belli, e segnalo agli altri quel pagamento stranamente elevato a Moretto.
Il giorno dopo, mentre scorrono le foto sul computer, guardando gli affreschi Alessandro Uccelli riconosce immediatamente la mano di Moretto, senza conoscere la questione dei pagamenti. Comincia un tam tam di pareri, e i professori sottopongono gli scatti ad alcuni amici, dai quali ricevono conferma: è lui. Quando ci rivediamo la settimana successiva mi comunicano quello che è successo nel frattempo: a tutti e due brillano gli occhi.
Io riguardo i documenti, loro riesaminano la bibliografia. Tutto sembra combaciare, e salta pure fuori che qualcuno se n’era già accorto alla fine dell’Ottocento, Gustavo Frizzoni, ma l’idea che non sola la pala ma anche gli affreschi fossero di Moretto era stata dimenticata, o per varie ragioni non se ne teneva più conto. Dell’appunto che avevo segnato dopo il primo sopralluogo me ne sono ricordato solo quando la “notizia” è uscita sul Corriere della Sera.
Ma mi pare che il vero successo di questa scoperta sia stato la sinergia fra occhi e menti, con capacità e competenze diverse, che si sono messi insieme nel paziente tentativo di far combaciare tutti i pezzi del puzzle. Questo si chiama fare ricerca, o almeno è così che mi è stato insegnato.