Perché gli artisti italiani non sanno niente d’arte e non vanno alle mostre? Forse cambiare il nome al Ministero che le promuove sarebbe un buon inizio
Ottobre 2014, a Londra s’inaugura Rembrandt. The late works. I profili facebook dei pittori inglesi si riempiono di threads sul maestro olandese. Il Suicidio di Lucrezia è ovunque, ogni singola pennellata viene allargata con Photoshop, analizzata, confrontata con quelle di centinaia di lavori contemporanei.
Ottobre 2014, a Milano inaugura Van Gogh. L’uomo e la terra. Silenzio assoluto sui profili facebook degli artisti italiani.
Novembre 2014, a New York l’opening di El Greco at The Frick Collection. Scultori, pittori, performer newyorkesi impazziscono. Il bianco di El Greco viene vivisezionato sui blog e su WhatsApp, sintetizzato in composizioni astratte, si fanno paragoni con la grande mostra di pittura contemporanea che apre poco dopo al MoMA.
Novembre 2014, a Mantova l’opening di Miró. L’impulso creativo. Gli artisti italiani continuano a tacere.
Dicembre 2014, a Los Angeles inaugura Nature and the American Vision: The Hudson River School. Niente di meglio per il patriottismo americano: LA dà di matto per i suoi pittori nativi.
Ma intanto, l’accoppiata Klein-Fontana al Museo del Novecento di Milano? Figuriamoci! E le dame del Pollaiolo? Nada de nada. Le possibilità sono due:
1. Gli artisti italiani sono totalmente disinteressati all’arte che li ha preceduti, antichi maestri compresi (e noi veramente speriamo che non sia così).
2. Musei e istituzioni non tengono conto di ciò che gli artisti italiani desiderano andare a vedere.
“Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”. Si è mai pensato che questa denominazione, stabilita nel 2013 durante il governo Letta, può spezzare il cuore a un artista? Che il nome è un simbolo e non una praticità? Quel «turismo» di certo non è collegato alla tradizione del Grand Tour, ma è dichiarazione esplicita di come il patrimonio culturale sia gestito per batter cassa e non per aiutare i giovani nella formazione di un gusto che contempli la storia dell’arte. Gli artisti italiani non vanno più al museo, hanno lasciato il posto a torme di cinesi, coreani e a chi ci va nei weekend di pioggia; i musei non provano nemmeno a incontrare il gusto degli artisti. Il risultato di tutto questo? I buoni artisti, specie i pittori, che ancora l’Italia poteva contare sono espatriati o stanno per farlo.
Un turismo intelligente potrebbe esistere anche in Italia. È quello, per esempio, che si è mosso per andare a vedere a Riehen in Svizzera la retrospettiva del britannico Peter Doig (1959), artista tra i più importanti del panorama mondiale che in Italia non ha mai avuto alcuna mostra personale.
Esistono isolati ma importanti tentativi di ristabilire una coscienza pittorica in Italia che si aggiungono all’offerta presentata ogni anno dalle gallerie private.
Tuttavia, a livello nazionale, l’unica speranza di salvezza rimane quella d’importare i pittori e gli artisti che hanno saputo amare l’Italia più di quanto l’abbiano amata gli italiani. E importarli in fretta, prima di fare brutte figure per non averne riconosciuto l’importanza mondiale anche dopo un secolo che dettano legge alle nuove tendenze nel resto dell’Occidente. Chi sono questi pittori che l’Italia dovrebbe importare?
Innanzitutto Philip Guston (1913-1980), pittore statunitense che cambiò le carte del modernismo americano inventando un figurativo goffo e cartoonesco in quegli anni Settanta in cui ancora vigevano le dure regole dell’astrattismo formulato da Clement Greenberg. Guston da più di cinquant’anni viene saccheggiato con gioia e buoni frutti dagli artisti di tutto il mondo. Dove trovò il coraggio per ribaltare le regole della pittura? In Italia, in residenza a Roma presso l’American Academy di cui solo il Museo Carlo Bilotti sembra essersi ricordato con una bella mostra nel 2010; non solo, Guston guardò molto anche a Piero della Francesca e a Tiepolo, sui quali ha scritto meravigliose pagine tracciando reciproche affinità tra i due. Recentemente – a dire il vero – un quadro di Guston è arrivato in Italia, a sorpresa, per una mostra intitolata Pollock e gli Irascibili a Palazzo Reale a Milano, mostra che a molti ha lasciato la sola sensazione che di Pollock non se ne possa più.
Secondo pittore che si dovrebbe esporre in pompa magna: Alex Katz (1927), 87 anni, maestro di pittura alla prima, pennellata perfetta. I suoi soggetti: ritratti, composizioni di più ritratti, fiori, close-up di foreste con un attento focus alla luce e al ritmo della composizione. Katz è cresciuto al fianco dei più grandi poeti americani della New York School, ha dipinto il jazz; ciò nonostante le sue superfici lo legano inestricabilmente sia alla scuola senese che a quella giottesca. Katz a condividere un muro con l’Orcagna? Chissà, forse, un giorno…
Due inglesi: Walter Sickert (1860-1942) e R.B. Kitaj (1932-2007). Come è possibile che l’Italia non ospiti retrospettive di Sickert se questi, il più grande pittore inglese a cavallo tra Ottocento e Novecento, allievo di Whistler e Degas, padre del modernismo inglese, essenziale a Bacon e Lucian Freud, ha passato metà della sua vita a dipingere Venezia e l’Italia citando Carpaccio, Tiziano, persino Palma il Giovane, in quadri di folle bellezza e colorismo?
E Kitaj? L’Ezra Pound della pittura ha preso le nostre grassocce dame rinascimentali e le ha sbattute nei bordelli londinesi senza che nessuno se ne sia accorto! Gli inglesi sono abili in questo, prendono la storia dell’arte italiana e la trasfigurano nell’ombra dei loro studi ospitati da vecchie centrali elettriche. Così hanno fatto anche i grandissimi David Bomberg, Stanley Spencer, Frank Auerbach, Leon Kossoff, parimenti assenti in Italia.
E poi i pittori black, Horace Pippin e Jacob Lawrence per primi, e i grandi tedeschi, e le estete americane come Florine Steetheimer e Alice Neel. Ma la lista di lovers d’Italie sarebbe infinita…
E invece no! Ci ostiniamo a esporre Van Gogh e i catalani – quando va bene–; divisionismo, Boldini e Corcos quando va male (l’avranno capito ormai le nostre vanitose adolescenti che anche le loro trisavole erano carine?).
E se un pittore italiano non volesse aspettare che i musei abbiano i fondi per importare questi artisti, se li volesse vedere subito? A sorpresa, ma nemmeno tanto, i musei più cool sono sempre loro, i Vaticani, che ospitano persino dei Ben Shahn e un Jacob Lawrence, maestro di tutti gli afroamericani che ora vengono esposti da Gagosian e David Zwirner. Uno a zero per papa Giulio II.
E gli antichi maestri? Considerato quanto poco appeal ormai abbiano velature, tonalismi e ovali perfetti nella pittura contemporanea, si propongano i grandi della pittura «caricata» e «giocosa» – che ancora l’Italia si ostina a chiamare «minori» ed «eccentrici». Si riscopra Alessandro Magnasco (per i più cupi), e si esaltino gli scherzi di Giandomenico Tiepolo (per i più allegri). L’ironia di molti pittori contemporanei viene da lì.