Il Piermarini si è ripreso l’opera, mandando in onda in live streaming su Raiplay “Così fan tutte” del grande salisburghese. A dirigere Giovanni Antonini, barocchista a suo agio anche nel repertorio classico
Sabato scorso l’opera è tornata finalmente nel suo habitat naturale, vale a dire alla Scala, con tanto di scene, costumi e, in qualche modo, persino una regia. Si tratta del vecchio Così fan tutte di Michael Hampe, che il pubblico ha potuto vedere non in tv ma direttamente su RaiPlay, circostanza che rende la serata il primo esempio di live streaming di un’opera per la Rai, con la stessa modalità “agile” dei concerti dell’OSNR, che richiede meno operatori rispetto alle dirette tv: ma per quel che succede in scena erano più che sufficienti.
La regia è stata ripresa diligentemente da Lorenza Cantini, le scene con le maioliche tipo monastero di Santa Chiara a Napoli e i costumi usciti come da un quadro di Watteau sono del compianto Mauro Pagano, allievo di Ezio Frigerio scomparso nel 1988 a soli 37 anni. Lo spettacolo aveva debuttato a Salisburgo qualche anno prima, nel 1982, con Riccardo Muti sul podio, per poi approdare l’anno successivo alla Scala dove gli venne riconosciuto quel tanto di polvere che lo ha reso immediatamente un classico, a metà strada tra Strehler e Ponnelle, o meglio come se Strehler fosse posseduto da Ponnelle, quindi senza che si raggiunga mai la sintesi lirica del primo né il vitalismo a orologeria del secondo.
A dirigere l’orchestra della Scala, in forma nonostante le continue pause di questo periodo, Giovanni Antonini, barocchista a suo agio anche nel repertorio classico, al netto di una prudenza iniziale che squadra un po’ troppo i numeri musicali e di qualche sbilanciamento, come le trombe quasi händeliane che sembrano catapultare il gioco mozartiano di amori e disamori in una pagina marziale del Rinaldo. Ma le atmosfere poi ci sono tutte: l’addio degli amanti in “Di scrivermi ogni giorno”, il moto ondoso di sospiri in “Soave sia il vento” (in poche opere si “sente” il mare come nel Così), il sublime forzato e irriverente di una partitura che, per così dire, invera la menzogna, giocando sul confine tra realtà e finzione, quasi a suggerire – forse non con cinismo, ma certo col più radicale degli illuminismi –, che la natura umana è fatta di artificio. E più la musica commuove e i personaggi si prendono sul serio, più l’artificio viene allo scoperto, lasciando in chi ascolta quasi un senso di disagio e di sospetto, come se tutta questa bellezza servisse solo a rendere più dure e spietate le verità raccontate da Mozart e da Lorenzo Da Ponte.
Buono il cast, a cominciare dalla fuoriclasse Eleonora Buratto, Fiordiligi di tutto rispetto, a cui mancano forse un po’ di calore e di abbandono nella sua interpretazione tecnicamente impeccabile. Emily d’Angelo è una Dorabella sempre convincente, mentre la brava e giovanissima Federica Guida è una vivace Despina. Il più credibile in scena è però Alessio Arduini, voce non grande ma dal fraseggio ammaliante, mentre più debole e generica è parsa la prova del tenore Bogdan Volkov. Solido infine il Don Alfonso vintage di Pietro Spagnoli. Menzione speciale per il brillante e spiritoso basso continuo di James Vaughan al fortepiano e Simone Groppo al violoncello. Ma il colpo di scena della serata, purtroppo non ripreso dalle telecamere, è stato il breve intervento del coro della Scala, con i coristi, uno per palco, che hanno acceso i leggii illuminando con la luce fredda dei led “Bella vita militar”, ulteriore sberleffo in questo gioco delle parti in cui non ci sono vincitori. (M.L.P.)
Così fan tutte: opera di inganni, con inizio d’inganno
“Nelle donne pretendete di trovar fedeltà?”. Ma scherziamo: “la fede delle femmine” è “come l’araba fenice”: Don Alfonso, il baritono-filosofo che, “coi crini già grigi” si dà aria di parlare “ex cathedra”, accende il motore della macchina erotica di Così fan tutte con una provocazione che oggi scandalizza gli ingenui.
Da pochi anni la terza opera dell’adorata trilogia Mozart-Da Ponte è riuscita a liberarsi della fama d’essere messaggio “filosofico” in “congegno geometrico”, dunque la più fredda delle tre. Le nozze di Figaro (1786) sarebbero l’amore che sboccia, la passione appena turbata dai primi sussulti. Don Giovanni (1787), la compulsione dell’amore nella ripetizione della conquista. Così fan tutte (1790), il disincanto dell’amore eterno, che eterno non è, mai.
A ogni nuova generazione di spettatori c’è sempre quell’equivoco da smontare. Perché solo la “fede delle femmine”? Come sarebbero messi, in materia, i maschietti? Male, malissimo, protesta il tempo del metoo a voce alta. Ma anche senza i pungoli del nostro sessualmente corretto, rileggiamo bene quel ch’è stato scritto 231 anni fa, perché dentro ce n’è per tutti.
In sintesi piatta e molto social che succede in Così fan tutte? Consegnatisi come pupazzi nelle mani del vecchio Alfonso, Guglielmo e Ferrando, baritono leggero e tenore, giovani militari altolocati, come tutti gli ufficiali, mettono alla prova per scommessa la fedeltà delle loro donne; fingono una partenza per la guerra, si ripresentano travestiti da stranieri (valacchi o turchi, chissà: l’amante esotico non l’abbiamo inventato noi), le tentano, le provano, le seducono e finiscono per conquistare l’uno la donna dell’altro, perdendo la scommessa e soprattutto la fede nell’Amore. Nel finale, Guglielmo e Ferrando avanzano in proscenio irati e afflitti, come se avessero ragione. Ma non hanno ragione: la loro conquista da prototamarri non è un atto di innocenza. Colpevoli, se colpa c’è nel desiderio d’amore, sono anche loro; più di Fiordiligi e Dorabella, le loro donne, le loro fiamme, i loro amori, che hanno “sforzato” per un atto intero e quasi due ore di musica fino allo sfinimento, con una macchinazione cui solo due sante avrebbero potuto resistere. “Così fan tutti”, Mozart farebbe cantare oggi; ma, in codice, già lo fa nel 1790.
Riavvolgiamo il nastro. Un caffè all’aperto, ‘na tazzulella in riva al mare – siamo a Napoli – tre uomini discutono, anzi litigano di brutto. I due giovani aggrediscono il vecchio che ha offeso le loro metà: “no, detto ci avete che infide essere ponno” – Dorabella e Fiordiligi -, “provarcel dovete, se avete onestà”. Se no, fuori la spada e sbudelliamoci. Ma Alfonso si dice uomo di pace e di duelli solo a tavola, e propone il gioco fatale: per un giorno (unità di tempo mirabile del teatro, che può essere un mese, un anno, una vita), Guglielmo e Ferrando dovranno simulare una forsennata seduzione per dimostrare l’assunto così-fan-tutte. Contro sé stessi.
Ma quanto chiede questa dimostrazione? Su due atti, diciotto scene e 31 numeri, sono necessari venti recitativi, quattro terzetti, due cori, quattro duetti, tre quartetti, un sestetto, due finali e otto arie per far vacillare Dorabella; sette recitativi e quattro arie in più per far crollare anche Fiordiligi, la più resiliente, che alla notizia della finta partenza dei fidanzati aveva intonato una delle arie di più fedele fedeltà che siano mai state scritte: “Come scoglio”.
E sono necessarie decine di “bell’idol mio”, dichiarazioni d’amore, preghiere, implorazioni e inginocchiamenti, un finto suicidio e soprattutto l’iscrizione a ruolo, nella macchinazione, di un formidabile fuoco amico: la servetta Despina, che indottrina le padroncine sulla eterna verità del persi due amanti, se ne guadagnano mille, s’inventa due travestimenti e gioca sporco per far vincere i due finti valacchi/turchi/albanesi.
Insomma, immaginiamo un remake sui Navigli. A un’apericena un paio di Jennifer Lopez strizzano l’occhio a due ragazzi felicemente fidanzati, allungano i numeri di cellulare, li lavorano ai fianchi, citofonano a casa, si fanno aprire (se no, saremmo su Marte), entrano ancheggiando come Charlize Theron e filano spedite verso la camera da letto. Alla fine si girano verso il pubblico e in un bel concertato in boccascena aprono le braccia: visto? Così fan tutti. Chi l’avrebbe mai immaginato. Copie conformi, le due Jennifer, di Despina, che, più filosofa di Guglielmo, già nell’Aria 12 aveva sbattuto in faccia l’altra metà del vero: “In uomini, in soldati, sperare fedeltà?… Di pasta simile son tutti quanti, le fronde mobili, l’aure incostanti han più degli uomini stabilità”.
Così fan tutte affonda la lama nel cuore dell’amore. Di ogni tempo, ogni luogo, ogni sesso. E si concede perfino un tocco di metateatro: l’opera inizia quando è già iniziata. Prima strofa: “La mia Dorabella capace non è…la mia Fiordiligi tradirmi non sa”, cantano Ferrando e Guglielmo. E “No, detto ci avete che infide esser ponno”, insistono. Ma quando gliel’ha detto Don Alfonso? Prima del libretto, nella pagina zero, quella non scritta.
Ricordo un solo regista che abbia capito e svelato quel prologo: Patrice Chéreau, che sugli spalti di Aix-en-Provence faceva inseguire Ruggero Raimondi, Alfonso di spalle larghe, da due Guglielmo e Ferrando incarogniti per davvero, con le spade sguainate, a pestare i piedi e farsi largo fra il pubblico, mentre ancora Daniel Harding dirigeva la Chamber Orchestra of Europe nell’affilata ouverture.
Opera di inganni, Così fan tutte, implacabile e moderna, con un inizio d’inganno. (C.M.C.)
Foto di Brescia/Amisano – Teatro alla Scala