“Much Loved” del marocchino Nabil Ayouch, applaudito a Cannes e proibito nel suo paese, racconta la vita, implacabile e brutale, di quattro giovani prostitute
Prima di vederne i volti, ne sentiamo le voci, mentre aspettiamo pazienti che lo schermo nero di Much Loved di Nabil Ayouch lasci il posto a immagini e movimenti. Prima di vedere gli occhi bistrati di nero e i sorrisi annegati nel rosso sgargiante che circonda le labbra come una corazza, già percepiamo la fragilità che vibra nel fondo di ogni risata, la paura che fa capolino fra una battuta e l’altra, la solitudine che striscia sotto pelle, come una bestia immonda, inafferrabile. Un’impressione forte, precisa, indelebile, che in pochi istanti definisce i contorni di questo film che si vuole scandaloso ma più che altro trasmette un infinito senso di tristezza.
Dal buio emergono quattro donne, Noha, Randa, Soukaina e Hilma, che nella notte si muovono con la disinvoltura di chi sa dove andare e che fare, cosa mettersi addosso e quanto farsi pagare. Sì, perché sono prostitute e non lo nascondono. Solcano lo spazio notturno di Marrakech, fatto di locali equivoci e feste ad alto grado alcolico, abiti luccicanti e nudità esibite, con una baldanza da regine del sesso e della trasgressione. Donne sicure di sé, che hanno uomini al proprio servizio (il mite e silenzioso autista factotum) e si mettono al servizio degli uomini, e apparentemente senza perdere la propria autonomia: i clienti inizialmente ci vengono in gran parte presentati come innocui adolescenti arrapati che ragazze ben più esperte di loro possono manovrare a piacimento, ottenendo soldi in abbondanza senza gran fatica.
Naturalmente, quest’idea che puoi mantenere il controllo sul tuo corpo anche se lo metti in vendita ogni giorno al migliore offerente è un’illusione. È un vecchio equivoco in parte condiviso anche dal femminismo del secolo scorso: il corpo è mio, lo gestisco io, e sono libera anche se mi prostituisco, purché lo faccia per autonoma scelta, e non per dare soldi a un pappone.
Che si tratti di una pericolosa illusione lo si vede subito, appena si passa dalla notte sfavillante di strass, gonfiata di musica, alcol e cocaina, al giorno grigio fatto di convivenza forzata in spazi angusti, dentro pigiamoni rosa e tute sformate. Perché di giorno le regine della notte si mettono un velo in testa, vanno a fare la spesa, e bussano invano alla porta della loro vecchia casa, cercando il conforto di una famiglia che le ha da tempo rinnegate, ma non si fa scrupoli ad accettare l’indispensabile denaro che loro regolarmente depositano sulla soglia, come fosse un’offerta davanti all’altare di una impossibile normalità.
Proprio quella normalità che invocano come un sogno irraggiungibile nel malinconico finale, sulla spiaggia, davanti al mare: vagheggiando forse un’improbabile fuga verso un qualche altrove e un’altra vita, lontana dalle mani rapaci degli uomini, dalla povertà e dal bisogno, dalla quotidianità di un mondo dominato dalla violenza, intessuto di umiliazioni e soprusi, a tratti illuminato da un filo di speranza ma più spesso squarciato dalla brutalità più atroce.
Forse proprio per questo dispiacciono in questo film coraggioso (passato al Festival di Cannes ma messo al bando dal governo marocchino) alcuni momenti in cui lo squallore e la violenza, l’abuso del corpo femminile vengono estetizzati al limite del voyeurismo. Non si può fare a meno di chiedersi: se questo film lo avesse girato una donna, il risultato sarebbe stato diverso? Forse sì.