Il MUDEC è stato inaugurato in fretta e furia e senza un allestimento permanente. Temporanee suggestive, ma cosa può imparare il visitatore? Un altro parere…
Il 27 marzo ha aperto i battenti in via Tortona 56 un nuovo museo, il MUDEC, ovvero il Museo delle Culture, sede della sezione extraeuropea delle Civiche Raccolte d’Arte Applicata di Milano, chiusa da decenni nei depositi comunali.
La prima, Mondi a Milano, incarna la missione etnografica del museo, riunendo le più svariate testimonianze materiali attorno al tema delle esposizioni internazionali organizzate a Milano fra Otto e Novecento. Un percorso interessante, che vuole spiegare quando, come e perché Milano si sia interessata di Africa nera, lontano Oriente o selvaggio West.
E se da un lato colpisce scoprire quanto le culture extraeuropee, o le immagini che di queste culture sono state propagandate, abbiano inciso nell’evoluzione del nostro gusto, sbalordiscono letteralmente le vedute della Fiera di Milano nel 1906.
La seconda mostra, Africa. La terra degli spiriti, è una sorta di trailer di quello che ci aspetterà quando la collezione del museo sarà visibile. È un trailer atipico però, perché realizzato con spezzoni di altri film: solo 3 dei circa 270 pezzi esposti appartengono alla collezione del MUDEC, i restanti sono prestiti…
Un altro grande interrogativo riguarda l’allestimento. Fra stanze immerse nel buio, teche scenograficamente illuminate e musiche ambient a suggerire l’atmosfera della savana, ci si chiede se la mostra abbia davvero lo scopo di presentare e far conoscere una cultura diversa dalla nostra o piuttosto di confermare nel visitatore una certa aura di esoterica alterità comunemente associata al continente nero. Se lo scopo era il primo, poter leggere agevolmente pannelli e cartellini, e soprattutto poter vedere in modo chiaro le sculture e gli oggetti esposti non avrebbe di certo guastato.
Inutile ribadire quello che si può trovare con una veloce ricerca su internet: la lunga e complessa gestazione dell’area ex Ansaldo da parte del Comune di Milano, la difficoltosa conduzione di un cantiere poi disconosciuto da David Chipperfield, la scommessa sulla sperimentale gestione mista pubblico-privato, come anche – bisogna prenderne atto – le oggettive potenzialità di una struttura nuova e piena di risorse.
Quel che è fatto è fatto, sprint finale compreso, per non perdere i treni del FuoriSalone – la prova generale – e di Expo2015 – il debutto vero e proprio.
Ciò su cui è necessario riflettere, invece, è l’assenza dell’allestimento permanente al momento dell’apertura al pubblico.
Perché presentare il museo come una scatola vuota, riempita in fretta e furia, e non come – si spera – è stato pensato e sarà? Se proprio c’era proprio bisogno di una mostra temporanea, la si poteva organizzare a latere: con 17.000mq lo spazio non manca. E la stessa storia della collezione avrebbe fornito la traccia di un percorso espositivo tutt’altro che banale. Anzi, avrebbe rischiato di aiutare tutti i visitatori – i milanesi in primis – a capire cosa ci fanno delle maschere rituali nigeriane a una manciata di fermate di tram dalla Basilica di Sant’Ambrogio.
Favorire l’accrescimento della coscienza di chi lo visita dovrebbe essere – ancor più che offrire spazi polifunzionali, servizi didattici o aree ristoro – tra le preoccupazioni primarie di ogni museo. Forse questo genere di cose non sono abbastanza cool, o non fanno botteghino. Chissà.
Foto: Mudec (esterno), photo: © OskarDaRiz
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