Al teatro Manzoni il grande animatore della musica nera chicagoana degli anni sessanta e il suo quintetto mostrano gli artigli
Il pensiero musicale di Muhal Richard Abrams, il grande musicista visto e sentito al teatro Manzoni il 31 gennaio, è insieme sintesi e rivoluzione. Una dicotomia che sta alla base dell’AACM (Association for the Advancement of Creative Music), associazione che alla fine del 2015 compiva cinquanta anni di esistenza e che il compositore e multistrumentista statunitense ha contribuito a fondare.
Muhal Richard Abrams non è soltanto una delle figure leggendarie della vita musicale di Chicago e New York (principale teorico del concetto di Great Black Music e guida per decine di anni di generazioni successive di musicisti decisamente innovatori), ma anche una delle personalità segretamente più influenti della storia del jazz.
Uno degli ultimi maestri di boogie-woogie e ragtime, fortemente influenzato dal blues, dal rhythm’n’blues e dal lirismo virtuoso di Bud Powell, Abrams ha definito un suo stile originale fin dagli anni cinquanta accompagnando i grandi eroi del bebop di passaggio a Chicago, da Miles Davis a Sonny Rollins, passando per Max Roach, Dexter Gordon e Johnny Griffin.
Negli anni sessanta il musicista si assegna una dimensione diversa alla sua carriera. Operando una sorta di rivoluzione culturale, in pochi anni si impone come un catalizzatore dei desideri di innovazione e di apertura estetica di una generazione di musicisti come Jack DeJohnette, Roscoe Mitchell, Joseph Jarman, Anthony Braxton, Henry Threadgill, Wadada Leo Smith, Leroy Jenkins, Amina Claudine Myers, ma anche Steve Coleman, Greg Osby, Jason Moran, Vijay Iyer, Tyshawn Sorey.
Muhal Richard Abrams si forma principalmente da autodidatta e polistrumentista (clarinetto, oboe, violoncello, sintetizzatore), accumulando un largo insieme di progetti visionari, che servirono da principi della Great Black Music. Si rivela quindi un compositore e direttore alla cui opera considerevole si può comodamente applicare l’etichetta di jazz o quella di avanguardia europea del ventesimo secolo (ossia intendo Messiaen o la seconda scuola di Vienna). Per esempio le sue composizioni sono state suonate anche dal Kronos String Quartet, da Ursula Oppens e Frederic Rzewski, dalla American Composers Orchestra o dalla Janáček Philarmonic Orchestra.
La AACM può essere meglio conosciuta per i suoi concerti avanguardisti comprendenti alcuni dei più compiuti, versatili e innovativi musicisti della nostra epoca. Tuttavia l’associazione vanta l’orgoglio particolare di aver sviluppato nuove generazioni di talenti con l’intento di proporre una nuova figura di jazzista, più coinvolto nell’attivismo politico e sociale e più attento nel recupero del patrimonio culturale delle proprie radici. Le cui capacità di performer, artista, insegnante sono aspetti in ugual modo importanti.
Non è per caso, dunque, che i cinque musicisti sul palco del Manzoni provengano da cinque generazioni diverse, in grado di coprire lo spettro temporale dal 1930, anno di nascita di Muhal Richard Abrams, al 1982, anno di nascita del talentuoso trombettista Jonathan Finlayson. Questa differenza generazionale ha portato una grande ricchezza stilistica, concretizzandosi in interventi che coinvolgono forme molteplici, molto bene organizzata fra solo, duo, trio e tutti. Oltre Finlayson alla tromba, gli altri membri del quintetto sono Leonard Jones al contrabbasso, in sostituzione di Brad Jones, Reggie Nicholson alla batteria e Bryan Carrott al vibrafono.
Il concerto al Manzoni è iniziato lentamente, con silenzi e una tessitura timbrica intellegibile e pur tuttavia sorprendente. I membri del gruppo si fanno avanti uno alla volta, in momenti successivi a completare un discorso comune che aggiunge velocità tramite l’affiancamento di colori tonali e assorbimenti stilistici.
Il teatro gremito, a cui si sarebbero aggiunte le oltre duecento persone dell’interminabile lista d’attesa, ha risposto con una silenziosa attenzione, solo alcuni applausi fuoriluogo, come se stessimo ancora ascoltando un assolo di bebop, ad indicare la reverenza che il quintetto ha guadagnato fin dai primi momenti del concerto.
Alle sezioni rarefatte si alternano esplosioni decostruite, i cinque indagano le forme fondamentali, il rapporto con lo spazio e i processi di trasformazione della materia. Una velocità infinita in un movimento spasmodico di luci, ombre e immagini in movimento estendono i limiti del comune pensiero musicale, immergendo gli spettatori in un ambiente in cui le dimensioni spaziali e i riferimenti temporali cessano di essere certezze e sembrano partecipare a una partitura in cui ciascuno è sia causa sia conseguenza di qualcos’altro.
La musica del quintetto si pone sulla soglia, un concerto retrospettivo e prospettivo allo stesso tempo. L’etereogeneità stilistica dei cinque musicisti sintetizza le tradizioni ancestrali e le innovazioni avanguardiste in un linguaggio originale ed emozionante. Si delinea così un mondo utopico, in cui il passato dei musicisti diventa il punto di partenza per la creazione di paesaggi immaginari e racconti fantastici, talvolta pervasi da un sottile senso di ironia.
La direzione del quintetto è discreta ed essenziale. Con pochi e semplici gesti la conduction di Muhal Richard Abrams indirizza e plasma il discorso musicale senza incertezza alcuna. Che gioia poter ascoltare questo concerto a Milano, una città il cui livello culturale solo talvolta riesce ad essere europeo.
Muhal Richard Abrams al teatro Manzoni