In Majakovksij, l’incidente è chiuso, in scena al Teatro Franco Parenti fino al 3 dicembre, i frammenti e le opere del grande artista russo danno forma a un momento di “teatro poetico” elegante e suggestivo. Lo spettacolo ricostruisce nove tappe della vita di uno degli artisti più coraggiosi di sempre
Il poeta è scomposto in un mazzo di carte. Non si potrebbe trovare sintesi più efficace delle sue stesse parole, per descrivere Majakovskij L’INCIDENTE È CHIUSO in scena al Teatro Franco Parenti fino al 3 dicembre, delle sue stesse parole.
Vladimir Vladimirovič Majakowskij, che in appena trentasei anni di vita ha squadernato la poesia mondiale, e ha cambiato verso alla cultura, prima di uccidersi lasciando un addio che sicuramente ha letto Cesare Pavese, che vent’anni più tardi le fece sue per compiere lo stesso gesto: “non fate troppi pettegolezzi”, prima di abbandonarla perché, disse, non aveva alternative, la vita dell’uomo nato in Georgia nel 1893 – o 1894, le date, si puntualizza in scena, discordano – ha fatto a tempo a essere quella di un drammaturgo, di un giornalista, di un regista teatrale.
E poi pittore, grafico. E attore e cineasta, uno dei primi. La Sala Testori, essa stessa scena con le sue colonne, i muri nudi e le sue finestre, da cui occhieggia luce come in certe notti bianche, è essa stessa scena quasi nella sua interezza. Le immagini rare e sorprendenti di alcuni dei film in cui compare il poeta. In un uso evocativo e abbondante pur se sempre funzionale alla dimensione teatrale, si moltiplicano come lampi di realtà su muri diventati schermo, almeno per sei, le trame composte di frammenti dei documentari sovietici che hanno segnato gli anni in cui nasceva il cinema.
Alla sesta superficie della stanza, in alto, l’unica che per ovvi motivi non rifrange, si sostituisce un diaframma scuro che taglia in due la stanza e la scena senza nascondere l’attrice, che anzi vi dialoga, in un uso dello spazio originale e ricco di fascino, dentro cui il regista, Daniele Abbado, e Giuliano Corti sperimentano, con grande libertà: si costruisce una ardita architettura in cui, come nella biografia del poeta, i mezzi espressivi si intersecano e si moltiplicano, allo stesso forsennato ritmo a cui si affastellano i temi e le comparse di un quello che forse è un film, forse teatro poetico, forse entrambe le cose e molte altre: emozioni, sogni animali, macchine.
Al contempo riportando alla parola e alla materialità dei fogli il canto di un nuovo dio industriale. A Luca Scarsella è stato dato il compito di pescare dalla sterminata messe di materiali e fonti: frammenti, poemi, biografia, opere di natura diversa si accostano sfumando i loro confini, il montaggio diviene linguaggio, crea un sistema di segni per dar vita ad un insieme organico per raccontare qualcosa di fino ad allora inedito.
Serve, sembra suggerire, la poesia, per raccontare il nuovo mondo ancora giovane dei telefoni e delle lampadine, a illuminare il momento storico più fertile e tragico dell’alba del nuovo secolo. Accade molto, in quel torno di anni, in cui il profilo delle nuove città, cambia vertiginosamente e fa cambiare gli uomini. “Dopo l’elettricità – scrive il poeta – non posso più interessarmi alla natura”, cosa imperfetta che resta soltanto come immaginario incantatrice a sua volta proiettato. In questo vortice di possibilità e soffocante perfezione solo apparente (cosa è cambiato, tra povertà e nuove polizie segrete, tra la società rivoluzionaria e i tempi dello zar?) in tanti si perdono.
Per ogni Gor’kij, il padre nobile della poesia russa, che fa intravvedere un talento in potenza finché non si scopre che “singhiozza su ogni panciotto poetico” c’è un poeta che non vuole più vivere. La “generazione che ha dissipato i suoi poeti”, produce una densissima commistione surrealista – meglio, futurista – di materia, suoni, suggestioni.
A cui Giovanna Bozzolo presta il suo corpo, facendosi strumento della prima persona singolare del poeta. Offre il calore e la profondità della sua voce a una “sciarada di iperboli e allegorie”, in cui l’amore corre sottotraccia e poi affiora, e la realtà si trasfigura in ritmo e suono, così come fa la poesia.
Che conserva e rivendica la sua raffinatezza, quanto più è espressione di un’esigenza profonda – con l’anima del poeta si potevano confezionare gonne eleganti – e al tempo stesso rivendica la nuova pervasività che i poeti vogliono avere, il significato reale della poesia e il senso stesso del praticarla.
La poesia non è orpello, mette Majakovskij in quelli che potrebbero tranquillamente essere versi a loro volta, ma la presa di voce nel quotidiano; “o la poesia occuperà tutti i giornali, in tutte le notizie, o non ce ne sarà stato bisogno”.
L’incidente è chiuso, dunque, sulla scena del delitto della morte del poeta rimangono i suoi versi. E non importa, in fondo, se sia morto per amore o per colpa di quella stessa rivoluzione di cui pure aveva cantato il sorgere.
Cosa rimane? Versi che hanno saputo superare il tempo e avvicinare Majakovskij a qualcosa che assomiglia all’immortalità. E d’altro canto, però, la sua stessa voce a far scendere il buio sull’ammissione di una resa, a nome di chi, perdendo di vista il presente ha “confidato troppo nel futuro.