La band inglese ritorna con Drones, settimo CD in studio e trionfo del rock nudo e crudo. Per fare la musica contro la guerra
Amare i Muse da quasi dieci anni significa vivere l’arrivo di ogni nuovo album con un misto di esaltazione incontenibile e ansia paralizzante. Perché non si sa mai cosa aspettarsi da un genio musicale come Matt Bellamy: in vent’anni la band ha toccato (per fare qualche esempio) rock, classica, metal, funk, elettronica, musica sinfonica e, più recentemente, dubstep.
Per questo quando i tre di Teignmouth annunciavano che il loro settimo album Drones sarebbe stato un ritorno al rock puro e semplice, io per prima non sapevo se crederci. Ebbene, in gran parte, è veramente cosí. E Drones diventa il loro miglior album dai tempi di Black Holes and Revelations.
Da Absolution in avanti, i Muse non hanno mai avuto paura di affrontare temi politici. Quindi Drones, concept album sull’avvento dell’uso dei droni nella guerra remota, è una continuazione naturale delle preoccupazioni liriche della band.
La storia parte con Dead Inside, dove il protagonista capisce che il drone ha cancellato le sue emozioni e lo ha reso, appunto, morto dentro. Ci sono voluti più ascolti per capirla a pieno, ma ora ne apprezzo i sottili accenni elettronici, la batteria di Dom Howard come un battito cardiaco arrestato, e il testo di Matt, intenso e emotivo. Psycho inaugura invece il rock raw che caratterizza l’intero album, tra metafore militari e un riff potentissimo.
A seguire è Mercy che, assieme a Revolt nella seconda parte, è l’unico passo falso del disco: entrambe sconfinano nel rock-pop anni ‘80 e stonano stilisticamente col resto. Per fortuna Reapers salva subito la situazione, avvicinandosi più che mai alla rabbia rock dei Rage Against the Machine. Il ritmo, poi, aumenta nel capolavoro successivo, The Handler. Questo pezzo, potente e melodico allo stesso tempo, con una chitarra che evoca la Stockholm Syndrome del 2003, è una sintesi del passato e del futuro dei Muse. Non a caso è anche il pezzo cardine del disco, dove il protagonista decide di ribellarsi alle forze che lo controllano. Una ribellione che raggiunge il picco su Defector che, con tanto di sample di un discorso di JFK e coro alla Queen, proclama la libertà dell’individuo.
Sul finale tornano le sperimentazioni con le influenze che fanno parte dell’estetica Muse da sempre. The Globalist, tra Ennio Morricone, arie sinfoniche e passaggi che sfiorano il metal, diventa una sublime epica di dieci minuti che immagina la vendetta catastrofica del protagonista.
La title-track Drones, in chiusura, è forse la cosa più straordinaria che io abbia sentito quest’anno: si tratta di un canto di chiesa a cappella (avete letto bene) dove il protagonista piange la morte della sua famiglia per mano dei droni. Con tanto di “Amen” finale. Lo stesso che viene da sospirare dopo l’ascolto di questo grande ritorno.
Foto di NRK P3