Colonne sonore da shopping bocciate quasi senza appello: nei negozi di Milano troppa musica, troppo alta, ma scelta male. Abbiamo quello che ci meritiamo?
Per me l’inizio di tutto è stato al Pois, come si chiamava una volta il bar delle Colonne che ora si chiama Exploit. Erano gli anni ottanta, ero giovane e amavo – amo ancora – la musica. Ma il Pois fece una roba imperdonabile, alzò a livelli antisociali il volume dell’audio della musica diffusa, impedendo di parlare e nei fatti inaugurando la stagione dell’alcol come unico modo per comunicare.
Non potevi parlare (cosaaaa?) non potevi ballare (non si saliva ancora sui tavoli come dei cowboy scemi) e quindi non restava che bere. Il Pois era il locale più figo di Milano in quella stagione bella e plasticosa, e quello che si ascoltava a me piaceva, gli anni ottanta sono stati anni musicalmente molto belli e ricchi di idee.
Ma dal Pois in poi la musica alta è diventata ovunque l’unica opzione considerata “up to grade” in tutti i negozi, con l’aggravante che la qualità musicale oggi è decisamente calata. E quindi, cosa siamo costretti ad ascoltare oggi, se si fa shopping a Milano?
Saltando i locali e i vari pub da aperitivo – spesso con colonne sonore insopportabili, ma quelle sono scelte “artistiche”, partiamo dai supermercati. Di base le grandi catene si appoggiano a radio generaliste, a cui a volte chiedono una colonna sonora ad hoc.
Spesso pero’ diventa solo un sottofondo che tranquillizza il nostro sistema nervoso uditivo, che da decenni non tollera il silenzio e pretende un suono di fondo presente e costante, come quello che emette la tv in casa nella maggior parte delle famiglie.
Ci sono pero’ le eccezioni: il discount Penny per esempio ha una sua radio interna, con tanto di conduttori che parlano con inutile entusiasmo delle grandi offerte presenti fra gli scaffali. Gli speaker sono evidentemente degli stagisti che hanno la data di scadenza come le mozzarelle messe in vendita nel reparto latticini: durano poco e vengono gettati nell’umido dopo poche prove.
E la musica? Un poppettone senza tregua che passa da Eros Ramazzotti ad Elton John senza soluzione di continuità, quel genere di musica rassicurante di cui ci nutriamo da anni e che facilita gli acquisti dello yogurt e della mitica carta igienica Gran Finale, vero prodotto di culto della catena.
Ma che musica sarebbe bello ascoltare in un negozio? Ci sono teorie che sostengono che la musica conosciuta sia troppo distraente e che quindi al rivenditore non conviene avere canzoni famose perchè poi “il cliente non mi compra”. Non so se sia una teoria scientificamente sostenibile, ma molti ci devono credere perché la maggior parte dei negozi del centro dove ho infilato le orecchie avevano una colonna sonora anonima e tendenzialmente inutile.
Per esempio, se entrate da Dolce e Gabbana in corso Venezia troverete un tappeto sonoro anonimo e inutile, quasi come se la musica non dovesse entrare in sintonia con i capi in vendita, che tutto sono tranne che anonimi (e a mio gusto anche piuttosto buzza, ma questo è un mio parere personale).
E questo stile da ascensore, con musichette emollienti appena sopra il gradino dell’anonimato, prosegue sostanzialmente in tutti grandi store della zona: da Zara Home trovate del jazz inutile, da HM musica banale senza anima (e intanto ci sono in vendita le t shirt dei Run DMC, sic!) da Accessorize del finto funk da arredo…fino al Brian and Barry Building, dove potete prendere l’ascensore trasparente per salire all’ultimo piano e – se beccate il brano giusto – vivere la sensazione di essere in una…fiction di RaiUno.
Eccitante come un talk con Magalli, o quasi.
Paradossalmente, la musica prende un ruolo piu’ importante nei negozi da teen, come per esempio da Tally Weijl in corso Buenos Aires: musica supermaranza ad un volume insopportabile se non per una 14enne in pieno scatenamento ormonale. Ma almeno la musica ha un ruolo, quello di pomparti adrenalina come nei club più trash della provincia.
E infatti fa bella mostra di sé una gigantesca palla da discoteca. Esperienza terrificante, ma certamente la musica ha una sua importanza.
Altri negozi in cui la musica non è uno stupido riempitivo? Pochi: da Footlocker in corso Vittorio Emanuele nel frastuono generale almeno distinguo delle canzoni conosciute tipo Tiziano Ferro o Mark Ronson, oppure da Tiger, dove c’è finalmente una selezione che sembra pensata e intelligente fatta di vecchio rock ‘n roll, Beatles, cose piacevoli e spensierate che accompagnano i giri senza fine fra le mille pinzillacchere in vendita.
Nella mia memoria ricordavo McDonald’s come attento al suono, ma mi ricredo subito: il rassicurante puzzo caldo che ti accoglie all’ingresso non contempla la musica come compagnia. Qui è il tempio del suono di fondo percepito, e in mezzo ad allarmi, ordinazioni e accenti esteri vari nemmeno Shazam riesce a capire cosa diavolo stanno suonando.
Me ne torno a casa pensando che di musica nei negozi ce n’è tanta, pure troppa. Ma che di musica scelta e pensata, capace di accompagnare e giocare con le orecchie e la testa di chi ci entra non c’è quasi traccia. E forse è giusto così, questa è una città che ormai ascolta musica solo in cuffia, da sola, intenta a farsi i propri film con la propria colonna sonora. Il resto deve essere solo rumore, e non deve distrarre dalla sacralità del dio dello shopping.
D’altronde, come diceva Miles Davis, la musica e la vita sono solo questioni di stile.
Foto: Sandra Cohen Rose and Colin Rose