Bisogna aiutare Jasmine. E Josef e i suoi fratelli. Accanto a quella dei grandi che ha riempito gli aeroporti e le strade contro Trump e il suo Muslim ban, cronaca della protesta dei bambini che difendono i loro amici
È vero: Donald Trump ha vinto le elezioni a novembre, ma almeno abbiamo tutti avuto un paio di mesi per respirare ancora un po’ e goderci gli sgoccioli della presidenza di Obama. Fino alla fine di gennaio riuscivamo anche a parlare di altro e non della terribile sorte che ci aspettava al varco. Poi il venti gennaio il re farlocco è stato incoronato e l’ansia ha ricominciato a salire, ancora più forte di prima.
La prima settimana della presidenza di Trump è stata traumatica per tutti: aveva già tolto dal sito della Casa Bianca alcuni dati fondamentali sulle condizioni lavorative e di discriminazione della popolazione LGBTQ, e dati importanti sull’ambiente e non erano passate neanche due ore dal giuramento. E da lì, la discesa ha accelerato il passo drasticamente. Ogni giorno le notizie sembravano peggiorare: ha scelto questo come ministro dell’ambiente, ha scelto quella per l’istruzione. Una carneficina. E poi la manifestazione, enorme, delle donne. La più numerosa nella storia degli Stati Uniti, pare. Se ne è parlato molto, come si è però parlato dell’altra manifestazione, quella indetta dalla destra per eliminare l’aborto a cui hanno partecipato in migliaia.
Poi, venerdì scorso ci siamo svegliati all’alba con una notizia impensabile: Trump aveva deciso di negare l’entrata negli Stati Uniti a tutti i cittadini di sette Paesi islamici, anche quelli con la carta verde o con il visto regolarmente dato dalle varie ambasciate. Tutti devono essere trattenuti all’aeroporto, interrogati e possibilmente rimandati a casa. Se proprio vogliamo negare l’entrata negli USA, però, allora perché non ai Paesi da cui arrivarono gli attentatori dell’undici settembre, per esempio? Il perché viene fuori il venerdì pomeriggio: pare che l’Arabia Saudita e Trump abbiano in ballo degli affari di soldi da anni. Insomma, la rabbia degli americani scoppia come un pentolone pieno di popcorn: migliaia si ritrovano ai terminal dei voli internazionali di decine e decine di città, per protestare. Avvocati offrono di lavorare gratuitamente per aiutare le persone in ostaggio. I mass media, anche quelli di destra come Fox News, sono scioccati e atterriti. I giudici cercano di fermare questo divieto assurdo, gridando all’incostituzionalità, e ce la fanno. Il passo successivo è che la ministra della giustizia, quella ancora del governo di Obama, vada davanti ai giudici federali per appoggiare il diktat di Trump. Cosa che si rifiuta di fare, perché anche lei crede che sia incostituzionale. Quindi, colpo di scena mai visto nella storia degli Stati Uniti dagli anni di Nixon, la ministra viene licenziata in tronco e rimpiazzata da un altro, che riassicura il governo Trump annunciando: vado io davanti ai giudici a supportare il vostro ban.
Insomma, il caos più completo, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, che osserva incredulo. Qui, nel mio quartiere super liberal di Cambridge, il panico raggiunge livelli da ictus cerebrale. Ricevo un’email da Shannon, la mamma di un’amica di Emma, in cui dice che bisogna assolutamente fare qualcosa, e propone un incontro anche con i bambini per spiegare loro che la nostra unica arma a questo punto è coinvolgerci, tutti, nella richiesta lotta. Dopo essere state alla manifestazione anti-ban di Boston, io e Emma andiamo all’incontro, che si fa a casa di Mary, nella sua sala. Arriviamo un po’ in ritardo, e una decina di bambini con i rispettivi genitori sono seduti per terra a formare un grande cerchio. Shannon spiega ai bambini che il governo ha tre rami, e che ci sono due senatori per ogni Stato e un po’ di rappresentanti per ogni Stato, a seconda di quanto è grande. Dice che è importante che la voce di tutti sia forte e chiara, e suggerisce ai bambini, ormai un po’ annoiati, di compilare le cartoline che ha stampato, esprimendo le proprie preoccupazioni su quello che più ci freme: il muro, il divieto di fare entrare gente negli USA, l’ambiente, e di spedirle ai senatori del Massachusetts o ai rappresentanti. I bambini sembrano un po’ persi, non capiscono cosa devono fare, ma si sentono anche un po’ allarmati dalla preoccupazione che Shannon non riesce a nascondere.
Intervengo io, ovviamente. Perché io a stare zitta non ci riesco. Mi rivolgo ai bambini e dico loro di non preoccuparsi, che è sì importante far sentire la propria voce, ma che è soprattutto compito di noi grandi. Continuo dicendo loro che forse i piccoli potrebbero invece impegnarsi a fare qualcosa nel proprio quartiere, cioè in scala più piccola. “It’s called COMMUNITY ORGANIZING, Obama did it in Chicago!” Emma dice di aver paura per i suoi compagni di scuola che sono musulmani: ha paura che vengano deportati o, peggio ancora, che vengano deportati i loro genitori e loro no. Gli altri bambini confermano e esprimono la stessa paura. Ecco, dico io come se sapessi risolvere il problema, forse dovremmo iniziare da lì. Potremmo fare un bel cartellone, o un concerto a scuola, o una partita di calcio, o qualcosa del genere per esprimere solidarietà, per far capire ai bimbi musulmani che a scuola saranno sempre protetti dall’affetto dei loro amici. E magari, noi grandi potremmo invece mandare una lettera ai genitori di questi bimbi, magari tradotta anche in arabo, in cui esprimiamo solidarietà e offriamo supporto, tipo una lista di avvocati locali che possano offrire il loro aiuto, o di assistenti sociali. Si potrebbe anche invitare qualcuno di loro al prossimo incontro per chiedere a loro cosa possiamo fare. Per coinvolgere anche loro. Finisco così il mio discorso, mi risiedo, un po’ rossa in faccia.
Immediatamente i bambini si risvegliano dal torpore della lezione di educazione civica, che è importante ma distante da loro, come sono distanti Washington, e il Senato, e il presidente, che sono per loro (e anche per molti adulti) entità astratte. Si sentono finalmente all’altezza di poter davvero fare qualcosa: bisogna aiutare Yasmine e la sua famiglia. E Yosef, e i suoi fratelli. Bisogna parlare con la direttrice della scuola, per chiedere il suo appoggio. Si alza, nella sala di Mary, un certo fermento, di quelli belli pieni di proposte, di idee. L’incontro termina così, con un senso di speranza, un senso di determinazione lontani dall’ansia iniziale. Anche i genitori cominciano a parlare, proporre, pensare a come e a quando. Shannon mi guarda e mi ringrazia.
Stasera i bimbi che vogliono partecipare taglieranno dei nastrini e li appenderanno alla staccionata che c’è davanti alla scuola, per mostrare solidarietà. Domani invece metteremo un grosso cartellone, sempre fuori dalla scuola, e i bimbi che vogliono canteranno delle canzoni di solidarietà. Una mamma ha chiamato la moschea della zona per chiedere se c’è qualcosa che possiamo fare. Dicono di far fare dei disegni ai nostri bimbi che poi li appenderanno fuori dalla moschea. Sembravano contenti, dice la mamma che li ha chiamati.
Lo so, quello che fa la scuoletta del quartiere non cambierà di molto quello che sta succedendo. Ma se tutte le scuole fanno qualcosa, se tutti i quartieri si incontrano, genitori e figli, e decidono di partecipare a un movimento per cambiare, allora forse qualcosa succede davvero. Se non altro si combatte l’ansia, il terrore. E poi si va in manifestazione, si telefona al rappresentante della città per far sapere il proprio disappunto. Si va al terminal dell’aeroporto con i cartelloni fatti in fretta e furia. Insomma, si entra in un giro attivo di protesta.
Male non può fare.
Immagine di copertina di Geoff Livingstone, My Mommy is an Immigrant