Camminare nella terra dell’indicibile. Nadia Terranova, “Quello che so di te”

In Letteratura

Che cos’è Venera: memoria, bugia, rimozione, segreto? Mentre la Mitologia Familiare, inesorabile come il coro di una tragedia greca, recita la storia del suo internamento come il marchio di un destino che, tardi o tosto, è pronto a irrompere in ogni generazione successiva, la maternità appena vissuta spinge la voce narrante a indagare proprio in quella vicenda, allo scopo di proteggere il futuro. Da Roma torna quindi in Sicilia: a Messina, in un inverno che restituisce alla città ombre e sussurri, la sede del vecchio manicomio Mandalari diventa il luogo in cui riallacciare il filo dell’esistenza di Venera. Guardare in faccia i fantasmi di una vita, ascoltare i loro perché, svelare (al di fuori della leggenda) il senso storico di un atto violentissimo: un romanzo di restituzione, tra archivi e manipolazioni, condizionamenti sociali e ribellione estrema.

Una storia di richiamo e di superamento, di presagio e di investigazione: la maternità come faglia, il luogo dell’indicibile, il momento in cui la coscienza del dopo offre (anche) la possibilità di progettare una deviazione dal proprio genogramma attraverso la restituzione di una memoria.
Così il nuovo romanzo di Nadia Terranova, Quello che so di te (Guanda), decide di iscriversi dentro un territorio estremamente sottile.

La domanda che la narrazione provoca scopertamente, fin dalle primissime pagine, va al cuore della faccenda: può un’anima decidere di non farsi dimenticare? Resistere sottotraccia, aspettando la giusta rifrazione (o il mormorio, o lo sguardo) attraverso cui interferire nell’aldiquà?
Di sicuro, serve trovare una frequenza speciale per poter fare ritorno dentro il calore della memoria, e ricominciare a essere pensata, rivissuta. Capita, possibilmente. E magari accolta.

E così sembra fare, Venera, la bisnonna sghemba, che nel racconto della voce narrante da subito diventa un doppio, un fantasma vivo, un assalto alla (…) coscienza: come una interferenza a bassa intensità, che non scompare mai. Nella partitura dell’esistenza della sua discendente, Venera occupa lo spazio ricorsivo di un pentagramma inciso dal disegno di un ostinato: vago ricordo, sogno ricorrente, presenza percepita, prima; poi donna immaginata e monito implicito. Ma, soprattutto, grande rimosso di famiglia.

Quando, dunque, giocarsi la carta della riemersione, se non in una situazione di eccezionalità dei sensi?È questa la scelta che Nadia Terranova fa in questo romanzo: raccontare la maternità come il momento nel quale l’esistenza è più vicina al segreto della vita – e, di conseguenza, anche al mistero della morte.
Ambivalenza e solitudine sono (in qualche modo come era già avvenuto, su un altro piano, in Trema la notte) una frontiera di possibili conoscenze, di potenziali cambiamenti, nonché di svolte cruciali.
Perché l’atto della procreazione ha in sé una contraddizione fortissima: da una parte, manca il vocabolario. Non c’è (ancora) una lettura liberata della complessità dello stato (degli stati) che il femminile vive all’atto del parto.
La verità, quando una donna diventa madre, è che manca un vocabolario per dire lo stato di contraddizione, meraviglia, potenza, debilitazione e sgomento nel quale l’animo di una donna si trova – quasi a sua volta partorita in una nuova condizione di sé.
Dall’altra,

Il lessico della parentela è indifferente alle nostre incertezze o inadeguatezze, sordo alle nostre suppliche; la parola che definisce il ruolo è già pronta per noi dopo un parto, un matrimonio o un lutto: madre, moglie, vedova, orfana. La nostra definizione ci precede, spesso per sbarrarci la strada.

Ma Venera, nella sua attesa, sembra scegliere con esattezza questo momento per incunearsi, dopo tre generazioni, dentro il tempo della maternità della sua nipote scrittrice, e non a caso: perché tutta la sua vita di ragazza, e madre, e donna aspetta di essere ricomposta attorno alla grande frattura del suo internamento nel manicomio di Messina, il Mandalari. È quel buco, bisbigliato nella Mitologia Familiare come una maledizione, una sorta di sigillo, destinato a tramandarsi, per linea femminile, in varianti e varianti di lacerazioni.

Nella mia famiglia, dove tutto succede a marzo, prima di compiere trentotto anni le donne si trasformano e gli uomini svaniscono.

Così dice la profezia che passa, contagiando di generazione in generazione le esistenze delle donne di casa con il beneplacito del coro greco dei sussurri di zie e parenti vari. E però la nascita della nuova bambina spinge a guardare in faccia il fantasma, e a trovare (laicamente, e scientificamente) i perché, e i come di quella deviazione improvvisa e cruenta: serve riannodare i fili, scendere a Messina, andare nei luoghi, ascoltare quello che è rimasto delle orme lasciate dalla giovane Venera.

Mi illudo che potrò controllare gli anni che verranno se sarò brava a scavare nel passato, individuerò le tracce migliori tra i documenti e i resti di Venera, decifrerò il suo alfabeto come una tavoletta babilonese e lo distruggerò, per non passarlo a mia figlia. Scrivere è interrompere questa linea di pazzia.

Così la voce narrante da una parte richiama e vaglia le leggende di casa, ma dall’altra insegue il raziocinio delle carte dell’Archivio: e dal passato, come se avesse aspettato soltanto l’occasione per essere riacciuffata, e restituita, la vita di Venera (le sue ragioni, la catena di cause ed effetti, le connivenze schiaccianti del suo tempo) ritrova un perimetro documentato. Se la sua vicenda ritrova senso nel contesto storico nel quale si è consumata, il valore della scrittura (e il coraggio dell’immaginazione) fanno da bordone a tutta la parte centrale del romanzo – a partire dall’importante riflessione di Rachel Cusk su letteratura e maternità.

I temi sono, naturalmente, moltissimi: il potere dei luoghi, il territorio del corpo, l’elaborazione del dolore, le madri e le figlie, i padri e la fuga, le cadute e le coincidenze, i presagi e la città costruita sul terremoto.

E tra tutti, c’è l’ostinazione del ricordo, la sua “giustezza”, il pericolo dell’abbandono della memoria: su una linea avventurosamente aperta da L’Architettrice di Melania Mazzucco, quello di Nadia Terranova è un romanzo che è contemporaneamente di indagine storica, ma anche di riflessione sulla responsabilità adulte nei confronti dei figli (un altro tema che si fa spazio nella letteratura contemporanea, già anticipato dal notevole romanzo di Cristina Battocletti, Epigenetica).

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