Sappiamo tutti quanto il teatro italiano (ma anche il nostro cinema) continui ad esser debitore verso le lande vesuviane in fatto di attori, drammaturghi, registi,…
Sappiamo tutti quanto il teatro italiano (ma anche il nostro cinema) continui ad esser debitore verso le lande vesuviane in fatto di attori, drammaturghi, registi, manifestazioni… L’ennesima riprova si è toccata con mano quando in contemporanea con il Campania Teatro Festival (quest’anno spostato in autunno in sovrapposizione e in contrapposizione all’apertura della stagione di tutti i teatri napoletani di produzione) si sono visti in scena, negli stessi giorni su due differenti palcoscenici, due eventi teatrali di valore assoluto, che da soli basterebbero a far grande un’intera annata e che si presentavano accomunati da una medesima triste prospettiva: sparire dopo queste poche repliche partenopee.
Mille i motivi, a partire da disposizioni della circolare ministeriale che impone una overdose di produzioni territoriali, ma diecimila le ragioni per parlarne e sostenerne i valori. Si sta parlando di Pinocchio – Che cos’è una persona di Davide Iodice che ha chiuso al Teatro San Ferdinando il 29 settembre e di Mare di ruggine di Antimo Casertano ancora in scena al Piccolo Bellini fino a domenica 6 ottobre. Non a caso poco fa s’è usata l’espressione “eventi teatrali” e non “spettacoli” (Bausch aveva creato il termine “Stück”), perché nel lavoro di Iodice, più dell’aspetto strettamente teatrale, va considerato il frutto della sua attività con un nutrito gruppo di ragazzi disabili attivi nella Scuola Elementare del Teatro con il Conservatorio Popolare delle Arti Sceniche.
Il regista li porta sul palco, senza intendimenti voyeuristici o più o meno partecipata compassione, ma li fa agire nella loro più tangibile autenticità, accompagnati ciascuno da un genitore, da un amico, da un parente, dalle persone che con i ragazzi convivono e che condividono le difficoltà e i problemi del vivere quotidiano. Ognuno si mostra solo come sé stesso, con i propri sogni, i propri sentimenti, la fragilità d’essere portatori di sindrome di Down o di autismo, o Williams, o Asperger. Si declinano situazioni e si attingono metafore dal testo di Collodi, fin dalla scena iniziale in cui il “cri cri” del grillo è eredità di una saggezza trascurata e il primo dei tanti Pinocchi si presenta schiacciato da una croce a cui sono inchiodati i libri di un inutile sapere; poi via via si vedranno i conigli neri del funerale, la volpe e il gatto trasformati in luminari della medicina sponsor di terapie spacciate come Campo dei Miracoli. E non una singola Fata Turchina, ma tante una per ciascun ragazzo, cadaveri incapaci di magie, fissate nella morte come nel rimosso delle pagine del romanzo.
Prima dell’inquietante e ossessivo tormentone “… e dopo?” si vedrà anche il teatrino di Mangiafuoco, luogo di inclusione e comprensione, specchio dell’attività svolta collettivamente in cui compare in prima persona anche lo stesso Iodice. Attraverso l’approdo alla poesia lo spettatore viene così coinvolto nella comprensione di situazioni che si tendono normalmente a scansare e chiamato alla consapevolezza di quanto sia stato importante per i ragazzi e per gli adulti con loro diventare i creatori di questa straordinaria esperienza.
Si fondono alla fine due collettività, una in palcoscenico e l’altra degli spettatori in platea, in un possibile riscatto comune, emotivo e intellettivo, col pubblico che applaude tra le lacrime e i performer che non vorrebbero più lasciare il palco.
Tant’è che si percepisce subito come i primi beneficati da questo Stück siamo noi seduti in poltrona. Sentire per capire e capire per agire. Valore politico del teatro? Risposta affermativa, se la politica vivesse anche di una dimensione di empatia col sociale e non fosse legata puramente a interessi elettorali, ma si prendesse carico di far circuitare lo Stück dei ragazzi disabili in ogni più remoto paesino della penisola, senza lasciarlo spegnersi alle falde del Vesuvio.
La parola “politica” va utilizzata anche per dire dell’altro spettacolo, quel Mare di ruggine di cui il 39enne Antimo Casertano è autore, interprete e regista (alla guida di un manipolo di altri 6 magnifici attori suoi coetanei). Tenendo come zenit la lezione brechtiana, si porta in scena l’intera storia dell’acciaieria di Bagnoli, “una favola che proprio favola non è”, come viene enunciato nel prologo. “Una favola il cui finale è ancora tutto da scrivere” dagli anni Trenta, quando il cantiere era in mano all’IRI, fino allo smantellamento, con macchinari quasi nuovi svenduti, smontati e mandati all’estero, per arrivare all’attuale situazione fatta di cantieri abbandonati, di spazi inquinati da risanare, di 3 km di spiaggia interdetta su cui però qualcuno ha già messo occhi voraci.
Dentro quelle mura si sono succedute le vicende delle generazioni familiari che hanno preceduto Antimo (si chiama esattamente come suo nonno), la ricerca del posto fisso così raro in particolare nell’area di Napoli, i fidanzamenti e i matrimoni, i colloqui per l’assunzione sempre uguali ma differenti in ogni epoca, le fatiche nell’altoforno – “il primo giorno è peggio dell’inferno, poi in qualche modo ci si abitua” – le malattie professionali come l’asbestosi e “la malattia del ferro”, le morti sul lavoro, ma anche i momenti felici.
La storia privata si rispecchia in parallelo nella Storia nazionale – rette che non si incontrano all’infinito – il dal piano Marshall al dopoguerra, le lotte sindacali, la conquista dello Statuto dei Lavoratori, l’arrivo di Maradona, le menzogne di De Michelis e di Craxi, poi il trasferimento a Genova e a Taranto e infine la chiusura e l’abbandono degli impianti. La sostiene una drammaturgia costruita con frasi brevissime, come in un bassorilievo, attenta a narrare gli eventi di fondo e intanto a caratterizzare i personaggi.
Si muove costantemente dentro e fuori le vicende, dando allo spettatore l’incarico di legare tra loro i puntini del disegno. La scenografia scarna e essenziale rimanda alla macchina infernale di Metropolis, fatta di imponenti strutture color ferro su cui incombe onnipresente l’occhio vermiglio e vigile dell’altoforno acceso, mentre i pochi oggetti di scena cambiano di continuo funzione a seconda delle esigenze. Così si arriva al non-finale dalla temperatura incandescente, non per i Fahrenheit della colata ma per i temi ancora irrisolti che la politica non può più rinviare.
Bagnoli si legge come esperienza del passato utile per capire il futuro nazionale. In modo diretto ma tutt’altro elementare lo spettacolo ce lo ricorda e ci chiama in causa come cittadini, prima che spettatori, proprio nei giorni in cui si deve decidere su Taranto: il diritto alla salute o il posto di lavoro? L’economia o l’ambiente? L’unica risposta è “Impegniamoci” oppure “Vedremo”.
Del resto vedremo anche come il tempo e la politica teatrale tratteranno esperienze di tale caratura, se un’augurabile loro circuitazione avrà la meglio sull’invasione (comunque legittima) dei tanti opinionisti passati dagli studi televisivi ai palcoscenici della stagione ora all’inizio, se si tratta di meteore napoletane esplose e subito spente o di comete che indicano rinnovati cammini.
Tutte le foto sono di Renato Esposito